RESTITUIRE TRIESTE AL FUTURO -

AUTONOMI DALL' ITALIA MA CONNESSI CON IL MONDO - RESTITUIRE TRIESTE ALLA MITTELEUROPA - RESTITUIRE TRIESTE AL SUO FUTURO: CENTRALE IN EUROPA INVECE CHE PERIFERICA IN ITALIA -

domenica 9 ottobre 2016

GLI ECCESSI DELL' ITALIA NEL CASO REGENI (Un articolo di Limes) - LA STRUMENTALIZZAZIONE DEL CASO REGENI PER FAIDE POLITICHE TRIESTINE E' VERGOGNOSA - LE RESPONSABILITA' DI POLITICA ESTERA E IPERATTIVISMO MEDIATICO - IL MECCANISMO PERVERSO CHE HA STRITOLATO SIA IL GIOVANE CHE LA SUA MEMORIA

IL GENERALE AL SISI ALL' INAUGURAZIONE DEL RADDOPPIO DEL CANALE DI SUEZ


Visto  il perdurare e l' accentuarsi della strumentalizzazione del caso Regeni in una disgustosa faida politica fra partiti nazionali a Trieste (la surreale "Battaglia degli Striscioni" fra "denti cariati" e usi strumentali da parte di chi, come il Bugiardello e il PD, la verità non sa nemmeno cosa sia) proponiamo ai nostri lettori un articolo della rivista di geopolitica Limes del 20 aprile, utile a comprendere il fatto nel quadro di politica internazionale.
Nell' articolo si parla anche del caso dei due Marò. 
Pensare che si tratti solo di un caso individuale di brutalità da perseguire giudiziariamente è purtroppo semplicistico e ingenuo.

Ecco l' articolo, che è svolto dal punto di vista italiano (clicca QUI):

GLI ECCESSI DELL'ITALIA NEL CASO REGENI

Iperattivismo mediatico, superficialità e orgoglio. Sull’onda della giusta indignazione per la morte del ricercatore italiano, Roma sta seguendo la stessa logica di scontro che ha dato risultati fallimentari nelle vicende di Cesare Battisti e dei due marò. È tempo di cambiare, senza rinunciare ai nostri valori.
di Giuseppe Cucchi

Quello che è ormai divenuto “il caso Regeni” sottolinea ogni giorno di più quanto grande possa essere la differenza fra paesi che, pur condividendo ufficialmente gli stessi valori, sono orientati diversamente per quanto riguarda la politica estera.


Una realpolitik che tenga conto più degli interessi che dei valori in gioco, oppure una politica che sia appunto una “politica dei valori” e che quindi ponga i valori davanti a tutto, qualunque sia il costo di questa affermazione di principio.


Gli esempi più evidenti sono da un lato la Francia – che chiude entrambi gli occhi su quanto successo a un cittadino di un altro paese Ue a lei molto vicino per poter continuare i suoi lucrosi traffici con l’Egitto, centrati oltretutto su una colossale vendita di armamenti – e dall’altro l’Italia, che pur di ottenere giustizia sembra disposta a rinunciare a una posizione particolarmente favorevole nel più grande paese del Mediterraneo arabo.


Una posizione, tra l’altro, frutto di decine di anni di paziente e durissimo lavoro.


Nel mezzo, alla difficile ricerca di un equilibrio che consenta di non rinunciare ai propri principi senza però espressamente condannare un regime la cui sopravvivenza è fondamentale per la stabilità di un’intera area di grande interesse strategico, si stanno pian piano disponendo tutti gli altri paesi dell’Occidente.


Un risveglio di coscienza che si palesa però con notevole ritardo rispetto all’accaduto e che ancora stenta a superare inerzie governative più o meno interessate.


Così negli Stati Uniti è la stampa più impegnata a sollecitare una presa di posizione precisa da parte del governo, mentre in quell’Inghilterra che pure dovrebbe sentirsi direttamente coinvolta poiché è stata una sua Università ad incaricare un cittadino italiano dell’indagine sui sindacati egiziani (scientifica quanto si vuole, ma palesemente non priva di rischi in quanto ai limiti della ricerca informativa), è stata addirittura necessaria un’iniziativa popolare perché si avesse una prima e moderata presa di posizione ufficiale.


Noi italiani invece ci siamo sempre mossi in una condizione di pieno allineamento al sentimento collettivo del paese; il governo ha cercato di giungere quanto prima possibile alla verità. A tal fine abbiamo provato dall’inizio a seguire tutte le strade possibili, affiancando all’azione giudiziaria prese di posizione politiche che dovevano essere rese più credibili dalla definizione di ben precise scadenze e dalla prospettiva dell’adozione di eventuali misure punitive.


Se in qualche modo abbiamo peccato, è stato probabilmente per eccesso.


Eccesso in tutto! Ad esempio, nella rapidità con cui la missione commerciale guidata dal ministro Guidi ha abbandonato il Cairo, rientrando in Italia più o meno nel momento stesso in cui è stato ritrovato il corpo della vittima. Un rientro che agli occhi dell’opinione pubblica mondiale è suonato immediatamente come una sentenza di condanna per l’Egitto, la dimostrazione di come esistessero prove che magari non si rendevano palesi subito ma che comunque portavano ad attribuirne con sicurezza al governo di al-Sisi la responsabilità.


Eccesso nel modo in cui la nostra stampa si è immediatamente scatenata a costruire ipotesi, basandosi spesso su dichiarazioni rilasciate da personaggi o troppo orientati in una precisa direzione, come i sindacalisti di opposizione che Regeni aveva intervistato nell’ultimo periodo della sua vita, o del tutto inattendibili, come l’ultima superstite della famiglia di banditi fra le cui cose, in un maldestro e tardivo tentativo di sviare l’indagine, erano stati inseriti i documenti del ricercatore italiano.


Come sempre succede con i nostri misteri nazionali, l’iperattivismo mediatico ha finito per porre a disposizione del pubblico decine di verità tutte egualmente possibili, rendendo di conseguenza difficilissimo pervenire all’unica verità vera.


Eccesso di semplificazione, allorché non abbiamo voluto tener conto di come il mistero fosse ben più fitto di quanto non fosse apparso a prima vista e di come rimanessero aperti degli interrogativi fondamentali.


Primo fra tutti quello relativo al ritrovamento stesso del corpo di Regeni. Con l’intero Sahara a disposizione, perché abbandonare le povere spoglie ai margini di una strada di grande traffico, ove l’unica cosa di cui si poteva essere sicuri era il rapido ritrovamento?


Si voleva che esse fossero reperite, e che lo fossero nel preciso momento della visita di Guidi,quando la cosa poteva fare più danno alle relazioni fra l’Italia e l’Egitto. O forse si mirava già, contando sulla reazione di Roma, a ottenere una condanna internazionale del regime di al-Sisi?


Un’impressione confermata dal documento anonimo pervenuto poi a La Repubblica, che con precisa scelta dei tempi veniva informata, giusto alla vigilia dell’arrivo a Roma della delegazione egiziana di alto livello destinata a incontrare magistratura e polizia italiane, di una ricostruzione dei fatti chiaramente costruita su misura per coinvolgere nell’accaduto l’intera dirigenza egiziana.


Il dossier infatti non escludeva nessuno, rimbalzando dalla Polizia di Giza al Ministero dell’Interno e ai Servizi Generali, dal Muhabarat ai Servizi Militari, fino al presidente della Repubblica. Ovviamente contornato dal gabinetto dei ministri e dai suoi più fidati consiglieri, tutti coinvolti come lui nelle decisioni chiave dell’intera vicenda.


Più di quanto necessario insomma per rendersi conto, qualora lo si fosse voluto capire, che il povero Regeni e la povera Italia venivano utilizzate come strumenti di una sfida politica senza esclusione di colpi che aveva come posta al-Sisi e il suo regime.


Eccesso di ignoranza o di orgoglio, forse di entrambi, allorché abbiamo reagito con una mentalità nonché seguendo logiche e modi che erano soltanto europei, senza tenere in alcun conto la diversa cultura e sensibilità di chi ci stava di fronte. Ci siamo scatenati sin dal primo momento in un parossismo di accuse dure e dirette, formulate in una maniera da non permettere al nostro interlocutore di effettuare la minima ammissione senza perdere completamente la faccia.


Del resto ci comportiamo in questo modo ogni volta e per questo incassiamo con regolarità scacchi cocenti senza volerne comprendere il perché.


Si veda il caso Battisti, in cui abbiamo preteso con arroganza che l’ex terrorista venisse consegnato a quella stessa magistratura italiana che in quel momento il nostro premier indicava a tutto il mondo come negativo esempio di partigianeria e inefficienza.


O quello dei due marò, ove non abbiamo voluto capire che l’India non poteva accettare una soluzione ufficiale in cui il proprio governo avrebbe perso la faccia davanti alla opinione pubblica nazionale. Di conseguenza abbiamo perso l’occasione informale che ci veniva offerta su un piatto di argento allorché i nostri due fucilieri rientrarono per la prima volta. Se noi li avessimo arrestati allora, pretendendo di giudicarli innanzitutto qui in Italia, il caso sarebbe stato concluso. Magari con qualche protesta formale da parte dell’India, ma di sicuro con grande sollievo di entrambi gli Stati coinvolti.


Eccesso di velocità nell’agire di fronte a un’inchiesta giudiziaria estremamente delicata, che investe non solo funzionari e organi di uno Stato amico ma presenta anche, come accennato, aspetti che potrebbero far pensare a congiure di palazzo di altissimo livello.


In queste condizioni, come si può pretendere che il caso venga risolto in poche settimane? Per di più in una maniera che deve assolutamente apparire soddisfacente alla nostra opinione pubblica? Non siamo abituati noi stessi a una magistratura che si prende abbondantemente i suoi tempi? 


Eccesso di reazione, considerate le misure che minacciamo di porre in atto. Sinora, per fortuna, ci siamo limitatati al formale richiamo per consultazione del nostro ambasciatore al Cairo, modo civile e quanto mai chiaro di segnalare il nostro scontento alla controparte.


Ora però si cominciano a valutare con serietà altri possibili passi. Il primo è il cosiddetto “sconsiglio” dell’attività turistica: non capendo che una misura del genere colpirebbe non certo il governo e la classe dirigente, ma il popolo egiziano. I proventi del turismo hanno infatti la caratteristica quasi unica di disperdersi con immediatezza in milioni di tasche senza essere sottoposti ad alcun filtro. Che colpa può mai avere il popolo egiziano di quanto è successo a Regeni?


Si parla poi di limitare le relazioni commerciali bilaterali. Ma simili misure colpirebbero di più l’Egitto, che può sempre ricorrere ad altri fornitori, o l’Italia per cui l’aumento delle esportazioni appare come la via maestra per uscire dalla crisi?


Eccesso infine di sottovalutazione di quanto l’Egitto potrebbe fare se messo con le spalle al muro per rispondere alle nostre decisioni. Qui lo spettro delle possibilità si fa veramente ampio, investendo anche problemi che per noi risultano particolarmente delicati.


Si pensi a quel che potrebbe succedere se il Cairo decidesse di insistere nel suo sostegno al governo libico insediato a Tobruk, impedendo così quella ricostruzione del paese vicino che è indispensabile per disciplinare il flusso dei profughi verso il nostro paese. O se decidesse di iniziare anch’esso la “politica dei barconi”, che il recente esempio della Turchia ha evidenziato essere particolarmente redditizia. C’è da rabbrividire soltanto a pensarci.


È tempo dunque che la nostra linea di azione nel caso Regeni venga accuratamente rivista. Senza rinunciare ovviamente ad alcuno dei valori che ci caratterizzano, ma sapendo come agire nella dovuta maniera e senza porre colui che ci fronteggia in condizioni tali da rendere ogni soluzione impossibile.


Non è quindi la sostanza della nostra azione che deve essere toccata: ogni Stato è tenuto a difendere la vita e la memoria dei propri cittadini ed a preservare, facendolo, non solo la sua ragion d’essere ma anche la propria dignità. Le proprie posizioni possono essere portate avanti in cento modi diversi e non è affatto detto che quanto appare oggi più duro risulti domani più efficace.


Un buon livello di conoscenza e di comprensione reciproca, nonché di adattamento dell’uno all’altro, è indispensabile quando due culture diverse si fronteggiano e tenere in piedi un dialogo corretto non è facile. In simili situazioni, il ricorso alle minacce o agli ultimatum non può far altro che portare a stalli insuperabili, perpetuando rancori che sarebbe nell’interesse di tutti attenuare o eliminare.


Pensiamo a tutto questo, e pensiamoci bene, prima di continuare ad inanellare eccessi.



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