RESTITUIRE TRIESTE AL FUTURO -

AUTONOMI DALL' ITALIA MA CONNESSI CON IL MONDO - RESTITUIRE TRIESTE ALLA MITTELEUROPA - RESTITUIRE TRIESTE AL SUO FUTURO: CENTRALE IN EUROPA INVECE CHE PERIFERICA IN ITALIA -

martedì 18 ottobre 2022

E' GIUNTO IL MOMENTO CHE TRIESTE GUARDI AL SUO ENTROTERRA NATURALE EUROPEO -


BASTERÀ UNA CRISI DELLO STATO E DELL’ ECONOMIA ITALIANA PERCHE TRIESTE RICOMINCI A GUARDARE AL SUO ENTROTERRA STORICO E NATURALE” cui è legata da un secolare destino geopolitico economico e storico.
Così lo storico Bogdan Novak conclude il suo libro “Trieste 1941-1954. La lotta politica, etnica e ideologica“ pubblicato per l’ Università di Chicago nel 1970, osservando che la “Questione di Trieste” non è chiusa.

 Che ci sia una crisi epocale in Italia è evidente a tutti anche perché  la sua funzione di portaerei della Nato nel Mediterraneo (con 120 basi note più venti segrete QUI) e di stato vassallo degli Stati Uniti la coinvolge pesantemente nella guerra in corso. 

A differenza della Germania che ha spazi di mediazione  autonoma, un’ economia solida che le permette di stanziare 200 miliardi per calmierare le bollette e l' intenzione di riarmarsi autonomamente diventando così nuovamente un soggetto geopolitico a pieno titolo (stanziati 100 miliardi oltre al 2% del cospicuo PIL).

Fin dagli anni ’90 in Germania si parlava di “Kerneuropa”(QUI) – Europa del Nocciolo – termine usato dal ministro Shäuble riferendosi all’ ampia area centroeuropea (che comprende il Nord Est italiano) che è entrata a far parte della “catena del valore” tedesca (supply chain) e dipende dalla sua forte economia industriale.


I tedeschi ne parlavano come del “nocciolo” europeo da salvare e sviluppare in caso di crisi della Ue  o della moneta unica.

 Mentre gran parte dell’ Europa del Sud sarebbe stata da lasciar andare al suo destino. Il tema è tornato di moda con la crisi della Grecia e adesso.


 

Il Porto Franco Internazionale di Trieste - benché non ancora pienamente attuato perché manca da decenni una semplice comunicazione del governo alla UE – tuttora lavora per il 90% con la Kerneuropa e solo per il 10% con l’ Italia. Penisola con cui Trieste è tuttora malamente collegata: basti pensare alla linea ferroviaria passeggeri .
Non è un caso se l’ impresa pubblica HHLA della tedesca città di Amburgo ha investito nel nostro porto e si appresta a costruirvi il più grande terminal: il Molo VIII.
Mentre l’ Ungheria investe anch’ essa in un terminal.

La Storia ci insegna che alle condizione economiche e materiali poi seguono inevitabilmente gli assetti politici e amministrativi.

La situazione di Trieste è di essere dilaniata fra una realtà economica e una prospettiva di futuro che la spinge verso le sue origini mitteleuropee e una sempre maggior integrazione con la Kerneuropa  e una realtà politico-amministrativa centralista romana che la frena (nemmeno una lettera alla UE sullo status di Porto Franco riescono a mandare…).
Come la inarrestabile decadenza economica e demografica in 100 anni di annessione all’ Italia dimostrano a chiunque.

Questa è un’ epoca di grandi rivolgimenti geopolitici: chi si sarebbe aspettato solo due anni fa l’ attuale grave situazione internazionale di scontro Occidente-Oriente, l’ acceso conflitto italiano con il suo principale fornitore energetico, la chiusura dei gasdotti, i discorsi sulle bombe atomiche e così via?

La crisi sta investendo il tessuto della UE che si dimostra inadeguata. Investe le economie e l’ assetto degli stati di cui il meno unitario, seccamente diviso tra Nord e Sud, e il più disastrato è attualmente l’ Italia.

E’ giunto il momento che Trieste, che è una città nata veramente come tale appena nell’ 800 con il Porto Franco e quindi giovane, cominci a pensare a cosa farà da grande e se il fidanzato italiano, più imposto che scelto, sia adatto per una vita futura.
E  se valga la pena di morire con lui in un futuro di miseria e guerra.


E’ ormai ora di introdurre nel nostro dibattito pubblico il concetto di Confederazione Mitteleuropea per prepararci alle scelte dei tempi futuri guardando al modello di Amburgo che tuttora è una Città-Stato portuale, col rango di Stato e con un parlamento autonomo, all’ interno dello Stato Federale di Germania.

Ogni epoca trova le forme politiche e amministrative più adatte.
Ciò che sembrava poter andar bene dopo la Prima e dopo la Seconda Guerra Mondiale non va più bene adesso che stiamo vivendo una "Terza Guerra Mondiale a pezzi" come dice Papa Francesco.
Bisogna immaginare il futuro per non esserne travolti.

pd

 



domenica 16 ottobre 2022

"IN NOME DI DIO, FERMATE LA FOLLIA DELLA GUERRA" - L' APPELLO DI PAPA FRANCESCO


Anticipiamo un brano del libro che Papa Francesco pubblica alla soglia del decimo anno di pontificato. Nel volume «Vi chiedo in nome di Dio. Dieci preghiere per un futuro di speranza», a cura di Hernán Reyes Alcaide (Piemme, in uscita martedì), il Pontefice lancia un appello universale a costruire insieme un orizzonte di pace, un mondo migliore.


-“Più di duemila anni fa il poeta Virgilio ha plasmato questo verso: «Non dà salvezza la guerra!». Si fa fatica a credere che da allora il mondo non abbia tratto insegnamenti dalla barbarie che abita i conflitti tra fratelli, compatrioti e paesi. La guerra è il segno più chiaro della disumanità.
 Quel grido accorato risuona ancora.
Per anni non abbiamo prestato orecchio alle voci di uomini e donne che si prodigavano per fermare ogni tipo di conflitti armati. Il magistero della Chiesa non ha risparmiato parole nel condannare la crudeltà della guerra e, nel corso del XIX e del XX secolo, i miei predecessori l’hanno definita «un flagello», che «mai» può risolvere i problemi tra le nazioni; hanno affermato che la sua esplosione è una «inutile strage» con cui «tutto può essere perduto» e che, in definitiva, «è sempre una sconfitta dell’umanità».

Oggi, mentre chiedo in nome di Dio che si metta fine alla follia crudele della guerra, considero inoltre la sua persistenza tra noi come il vero fallimento della politica.

La guerra in Ucraina, che ha messo le coscienze di milioni di persone del centro dell’Occidente davanti alla cruda realtà di una tragedia umanitaria che già esisteva da tempo e simultaneamente in vari paesi, ci ha mostrato la malvagità dell’orrore bellico.
Nel secolo scorso, in appena un trentennio, l’umanità si è scontrata per due volte con la tragedia di una guerra mondiale. Sono ancora tra noi persone che portano incisi nei loro corpi gli orrori di quella follia fratricida.
Molti popoli hanno impiegato decenni a riprendersi dalle rovine economiche e sociali provocate dai conflitti.

Oggi assistiamo a una terza guerra mondiale a pezzi, che tuttavia minacciano di diventare sempre più grandi, fino ad assumere la forma di un conflitto globale.
Al rifiuto esplicito dei miei predecessori, gli eventi dei primi due decenni di questo secolo mi obbligano ad aggiungere, senza ambiguità, che non esiste occasione in cui una guerra si possa considerare giusta.
Non c’è mai posto per la barbarie bellica.
Tantomeno quando la contesa acquisisce uno dei suoi volti più iniqui: quello delle cosiddette “guerre preventive”.
La storia recente ci ha dato esempi, perfino, di “guerre manipolate”, nelle quali per giustificare attacchi ad altri paesi sono stati creati falsi pretesti e sono state contraffatte le prove.
 Per questo chiedo alle autorità politiche di porre freno alle guerre in corso, di non manipolare le informazioni e di non ingannare i loro popoli per raggiungere obiettivi bellici.
La guerra non è mai giustificata. Infatti non sarà mai una soluzione: basti pensare al potere distruttivo degli armamenti moderni per immaginare quanto siano alti i rischi che una simile contesa scateni scontri mille volte superiori alla supposta utilità che alcuni vi scorgono

La guerra è anche una risposta inefficace: non risolve mai i problemi che intende superare.
Forse lo Yemen, la Libia o la Siria, per citare alcuni esempi contemporanei, stanno meglio rispetto a prima dei conflitti?
Se qualcuno pensa che la guerra possa essere la risposta, sarà perché sbaglia le domande.
Il fatto che noi a tutt’oggi ci troviamo ad assistere a conflitti armati, a invasioni o a offensive lampo tra paesi, manifesta la mancanza di memoria collettiva.
Forse il XX secolo non ci ha insegnato il rischio che corre tutta la famiglia umana davanti alla spirale bellica? Se davvero siamo tutti impegnati a porre fine ai conflitti armati, manteniamo viva la memoria in modo da agire in tempo e fermarli quando sono in gestazione, prima che divampino con l’uso della forza militare. E per riuscirci servono dialogo, negoziati, ascolto, abilità e creatività diplomatica, e una politica lungimirante capace di costruire un sistema di convivenza che non sia basato sul potere delle armi o sulla dissuasione.
E poiché la guerra «non è un fantasma del passato, ma è diventata una minaccia costante» (lettera enciclica “Fratelli tutti”, 256), torno a ricordare lo scrittore Elie Wiesel, sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti, il quale diceva che oggi è imprescindibile compiere una «trasfusione di memoria» e invitava a prendere qualche distanza dal presente per udire la voce dei nostri antenati. Ascoltiamo quella voce per non vedere mai più le facce della guerra.
Infatti la follia bellica resta impressa nella vita di chi la subisce in prima persona: pensiamo ai volti di ogni madre e di ogni figlio costretti a fuggire disperatamente; a ogni famiglia violata; a ogni persona catalogata come “danno collaterale” degli attacchi, senza alcun rispetto per la sua vita.

Vedo contraddizione tra quanti rivendicano le loro radici cristiane ma poi fomentano conflitti bellici come modi per risolvere gli interessi di parte.
No! Un buon politico deve sempre puntare sulla pace; un buon cristiano deve sempre scegliere la via del dialogo. Se arriviamo alla guerra è perché la politica ha fallito.
E ogni guerra che scoppia è anche un fallimento dell’umanità. Per questo dobbiamo raddoppiare gli sforzi per costruire una pace durevole.
Ci avvarremo della memoria, della verità e della giustizia. È necessario che tutti insieme apriamo la via a una speranza comune. Tutti possiamo, e dobbiamo, prendere parte a questo processo sociale di costruzione della pace.
Esso ha inizio in ciascuna delle nostre comunità e si innalza come un grido verso le autorità locali, nazionali e mondiali. Infatti è da loro che dipendono le iniziative adeguate per frenare la guerra.
E a loro, facendo questa mia richiesta in nome di Dio, domando anche che si dica basta alla produzione e al commercio internazionale di armi. La spesa mondiale in armamenti è uno degli scandali morali più gravi dell’epoca presente. Manifesta inoltre quanta contraddizione vi sia tra parlare di pace e, allo stesso tempo, promuovere o consentire il commercio di armi. È tanto più immorale che paesi tra i cosiddetti sviluppati a volte sbarrino le porte alle persone che fuggono dalle guerre da loro stessi promosse con la vendita di armamenti. Accade anche qui in Europa ed è un tradimento dello spirito dei padri fondatori.

 La corsa agli armamenti fa da riprova della smemoratezza che ci può invadere. O, peggio ancora, dell’insensibilità.
el 2021, in piena pandemia, la spesa militare mondiale ha superato per la prima volta i 2.000 milioni di dollari. A fornire questi dati è un importante centro di ricerca di Stoccolma, ed essi ci mostrano come per ogni 100 dollari spesi nel mondo, 2,2 siano stati destinati alle armi.

Con la guerra ci sono milioni di persone che perdono tutto, ma anche pochi che guadagnano milioni.
È sconfortante anche solo sospettare che molte delle guerre moderne si facciano per promuovere armi. Così non si può andare avanti.
Ai responsabili delle nazioni, in nome di Dio, chiedo di impegnarsi risolutamente a porre fine al commercio di armi che causa tante vittime innocenti.
 Abbiano il coraggio e la creatività di rimpiazzare la fabbricazione di armamenti con industrie che promuovano la fratellanza, il bene comune universale e lo sviluppo umano integrale dei loro popoli.
 Al pensiero dell’industria bellica e di tutto il suo sistema, mi piace ricordare i piccoli gesti del popolo che, anche tramite atti individuali, non smette di far vedere quanto la vera volontà dell’umanità sia di liberarsi dalle guerre.
Ma al di là del problema del commercio internazionale di armamenti destinati a guerre e conflitti, non meno preoccupante è la crescente facilità con cui in molti paesi si può entrare in possesso delle armi denominate “di uso personale”, in genere di piccolo calibro, ma a volte anche fucili di assalto o di grande potenza.
Quanti casi abbiamo visto di bambini morti per avere maneggiato armi nelle loro case, quanti massacri sono stati perpetrati per il facile accesso che a esse c’è in alcune nazioni?
Legale o illegale, su vasta scala o nei supermercati, il commercio di armi è un grave problema diffuso nel mondo.
Sarebbe bene che questi dibattiti avessero più visibilità e che si cercassero consensi internazionali affinché, a livello globale, fossero poste restrizioni sulla produzione, la commercializzazione e la detenzione di questi strumenti di morte.

Quando parliamo di pace e di sicurezza a livello mondiale, la prima organizzazione a cui pensiamo è quella delle Nazioni Unite (l’Onu) e, in particolare, il suo Consiglio di sicurezza.
La guerra in Ucraina ha posto ancora una volta in evidenza quanto sia necessario che l’attuale quanto sia necessario che l’attuale assetto multilaterale  trovi strade più agili ed efficaci per la soluzione dei conflitti.
In tempi di guerra è essenziale sostenere che ci serve più multilateralismo e un multilateralismo migliore. L’Onu è stata edificata su una Carta che intendeva dare forma al rifiuto degli orrori che l’umanità ha sperimentato nelle due guerre del XX secolo.
Sebbene la minaccia che essi si ripresentino sia ancora viva, d’altra parte il mondo oggi non è più lo stesso, ed è dunque necessario ripensare queste istituzioni in modo che rispondano alla nuova realtà esistente e siano frutto del più alto consenso possibile.
 È divenuto più che palese quanto queste riforme siano necessarie dopo la pandemia, quando l’attuale sistema multilaterale ha evidenziato tutti i suoi limiti.
Dalla distribuzione dei vaccini abbiamo avuto un chiaro esempio di come a volte la legge del più forte pesi più della solidarietà.
Ci si prospetta, dunque, un’occasione imperdibile per pensare e condurre riforme organiche, volte a fare recuperare alle organizzazioni internazionali la loro vocazione essenziale a servire la famiglia umana, a prendersi cura della Casa comune e a tutelare la vita di ogni persona e la pace.
Ma non voglio addossare tutta la questione alle organizzazioni, che in definitiva non sono più – ma del resto neanche meno – che un ambito in cui gli stati che le compongono si riuniscono e ne determinano la politica e le attività. Sta qui la base della delegittimazione e del degrado degli organismi internazionali: gli stati hanno smarrito la capacità di ascoltarsi a vicenda per prendere decisioni consensuali e favorevoli al bene comune universale.
Nessuna intelaiatura legale può sostenersi in assenza dell’impegno degli interlocutori, della loro disponibilità a una discussione leale e sincera, della volontà di accettare le inevitabili concessioni che nascono dal dialogo tra le parti.
Se i paesi membri di questi organismi non mostra[1]no la volontà politica di farli funzionare, siamo davanti a un evidente passo indietro.
 Vediamo, invece, che essi preferiscono imporre le proprie idee o interessi in maniera molte volte inconsulta. Soltanto se sfruttiamo l’occasione del dopo pandemia per reimpostare questi organismi potremo creare istituzioni con cui affrontare le grandi sfide, sempre più urgenti, che ci si prospettano, come il cambiamento climatico o l’uso pacifico dell’energia nucleare.
In questo senso, così come nella mia lettera enciclica “Laudato si’” esortavo a promuovere una «ecologia integrale», allo stesso modo credo che il dibattito sulla ristrutturazione degli organismi internazionali debba ispirarsi al concetto di «sicurezza integrale». Vale a dire, non più limitata ai canoni degli armamenti e della forza militare, bensì consapevole del fatto che in un mondo giunto a un livello di interconnessione come l’attuale è impossibile possedere, per esempio, una effettiva sicurezza alimentare senza quella ambientale, sanitaria, economica e sociale.
E su questa ermeneutica deve basarsi ogni istituzione globale che cercheremo di riprogettare, invocando sempre il dialogo, l’apertura alla fiducia tra i paesi e il rispetto interculturale e multilaterale.

In un contesto contrassegnato dall’urgenza, e in un orizzonte di condanna della follia bellica e di esortazione a ridefinire la cornice internazionale delle relazioni tra stati, non possiamo ignorare la spada di Damocle che pesa sull’umanità sotto la forma degli armamenti di distruzione di massa, come quelli nucleari. Davanti a un simile scenario ci domandiamo: chi possiede questi armamenti? Quali controlli ci sono? Come si pone freno alla logica che fa perno sull’accumulo di testate nucleari a fini di dissuasione?

 In questo contesto faccio mia la condanna di san Paolo VI verso questo tipo di armamento, che dopo oltre mezzo secolo non è divenuta meno attuale: «Le armi, quelle terribili specialmente, che la scienza moderna vi ha date, ancor prima che produrre vittime e rovine, generano cattivi sogni, alimentano sentimenti cattivi, creano incubi, diffidenze e propositi tristi, esigono enormi spese, arrestano progetti di solidarietà e di utile lavoro, falsano la psicologia dei popoli».
Non c’è motivo di restare condannati al terrore della distruzione atomica.
Possiamo trovare vie che non ci lascino appesi a una imminente catastrofe nucleare causata da pochi. Forgiare un mondo senza armi nucleari è possibile, dato che ne abbiamo la volontà e gli strumenti; ed è necessario, vista la minaccia che questo tipo di armamento comporta per la sopravvivenza dell’umanità. Avere armi nucleari e atomiche è immorale.
Sbaglia strada chi pensa che siano una scorciatoia più sicura del dialogo, del rispetto e della fiducia, ovvero gli unici sentieri che porterebbero l’umanità alla garanzia di una convivenza pacifica e fraterna.
Oggi è inaccettabile e inconcepibile che si continuino a scialacquare risorse per produrre questo genere di armi mentre si profila una grave crisi che ha conseguenze sanitarie, alimentari e climatiche e riguardo alla quale nessun investimento sarà mai abbastanza.
 L’esistenza delle armi nucleari e atomiche mette a rischio la sopravvivenza della vita umana sulla terra.
E quindi qualsiasi richiesta in nome di Dio affinché venga frenata la follia della guerra comprende anche una supplica a estirpare dal pianeta quell’armamento.
Il reverendo Martin Luther King lo ha espresso con chiarezza nell’ultimo discorso che pronunciò prima di essere assassinato: «Non si tratta più di scegliere tra violenza e non violenza, ma tra non violenza e non esistenza». La scelta sta a noi.


Clicca QUI per il manifesto programmatico della manifestazione del 5 Novembre.
RINASCITA TRIESTINA aderisce.




mercoledì 31 agosto 2022

BOLLETTE KILLER: NEL PORTOFRANCO INDUSTRIALE C’E’ L’ESENZIONE DA ACCISE E TASSE PER ENERGIA E CARBURANTI DESTINATI ALLA PRODUZIONE


UN TESORO DA RISCOPRIRE PER ATTRARRE INDUSTRIE A TRIESTE-

A Trieste c’ è il Porto Franco Internazionale che tra i vari vantaggi ha anche l’ esenzione da accise e tasse per energia e carburanti destinati alla produzione (vedi ART. 3 decreto 53/1959 Commissario del Governo Italiano: clicca QUI).

Si tratta di un decreto del Commissario del Governo Italiano che recepisce normativa precedente e che non è stato mai abrogato, anche se sembra caduto in dimenticanza.
L’imposta sul consumo (accisa), l’addizionale regionale e l’IVA rappresentano una quota rilevante del prezzo finale dell’ energia.

Già in passato a partire dal 1959, le industrie presenti nella Zona Franca Industriale hanno usufruito di tali vantaggi che adesso diventano importantissimi e che cumulati con quelli della extraterritorialità doganale, non ancora completamente attuata per l’ assenza di una semplice comunicazione del Governo alla UE, renderebbero vantaggiosi gli investimenti industriali a Trieste.
Infatti la BAT si sta insediando nella zona franca Freeste a ridosso della Wartsila.

E’ possibile estendere la Zona Franca Industriale portuale anche ad altri siti con un semplice decreto dell' Autorità Portuale,

Dal binomio Porto Franco e Industria arriva, come sempre, la salvezza per l’ economia triestina.
La situazione di crisi interna e internazionale rende ancor più evidente che 
Trieste ha un tesoro nascosto e poco usato: il porto franco che va potenziato con la piena attuazione della extraterritorialita’ doganale e l’ applicazione del decreto commissariale sulla zona franca industriale


Links:

1) Link al sito della Associazione degli Spedizionieri e Terminalisti di Trieste ASPT-ASTRA con il Decreto commissariale 23 dicembre 1959, n.53 Istituzione di un Punto Franco nel comprensorio del Porto Industriale di Trieste - clicca QUI

2) Il sopracitato Decreto commissariale fa riferimento al precdente decreto n.29 del 19/1/1955 che riprende gli impegni relativi al Porto Franco di Trieste derivanti dal Trattato di Pace del 1947 e il Memorandum di Londra del 1954 - clicca QUI

3) Link al sito della Associazione degli Spedizionieri e Terminalisti di Trieste ASPT-ASTRA con illustrazione della possibilità di lavorazioni industriali in Porto Franco e confronto fra Zone Franche Europee e Porto Franco di Trieste : clicca QUI

4) Link al nostro post "
WARTSILA: DALL’ EXTRATERRITORIALITA’ DOGANALE DEL PORTO FRANCO ARRIVEREBBE UN FORTE AIUTO AL MANTENIMENTO A TRIESTE DELLA PRODUZIONE DI GRANDI MOTORI E ALLO SVILUPPO DEL SETTORE INDUSTRIALE": clicca QUI



giovedì 21 luglio 2022

E’ INIZIATO UFFICIALMENTE IL COLLASSO ITALIANO: dal ventre molle e marcio della politica romana. Si andrà alle Urne (Cinerarie) in autunno..

 


I nodi storici e geopolitici vengono al pettine.

Non si devono ripetere i tragici errori di un secolo fa dei liberal-nazionali triestini che hanno voluto la nostra città nello sgangherato Stato Italiano che aveva ed ha interessi nazionali opposti a quelli di Trieste che era, ed è tuttora, il Porto Franco sul Mediterraneo dell’ Europa centro orientale, attualmente guidata da Berlino.
Di questo nostro status a Roma non interessa niente e non ci capisce niente, neanche per guadagnarci: tant’ è che non ha fatto nulla per l’ applicazione completa dell’ extraterritorialità doganale prevista dai trattati internazionali in vigore e che la UE riconoscerebbe automaticamente solo che il Governo Italiano si degnasse di comunicarglielo.
Continuare a guardare a Roma equivale a volersi gettare tra le fiamme completando il suicidio di un secolo fa.
Bisogna guardare al mondo tedesco che dimostra - con l’ arrivo degli amburghesi di HHLA - interesse per il nostro porto, i suoi alti fondali e l’ ampia rete ferroviaria eredità dell’ Impero, in un momento in cui i cambiamenti climatici e la siccità conseguente mandano in crisi tutti i porti del Nord che sono fluviali e serviti da canali che hanno problemi crescenti.
La Germania dimostra anche maggior cautela e diplomazia nei confronti del mondo russo e le sue forniture di gas e petrolio rispetto al bellicismo e iperatlantismo della Penisola che è una portaerei USA nel Mediterraneo. E anche realismo con la decisione di riarmarsi (100 miliardi subito e 2% del poderoso PIL annualmente) vista l' inesistenza della "difesa europea" come della politica estera autonoma della UE.
La “Questione di Trieste” non è chiusa: si presentano, in un momento di grandi rivolgimenti geopolitici e scontri epocali tra Potenze, le condizioni previste dallo storico Bogdan Novak che nel suo libro “Trieste 1941-1954”, pubblicato dalla casa editrice dell’ Università di Chicago, preconizzava che a fronte di una grave crisi, come quella attuale, i triestini avrebbero ripreso a guardare al loro entroterra naturale europeo e tedesco.
Ovviamente Trieste non ha la forza di determinare autonomamente il proprio destino ma dovrebbe avere l’ intelligenza di assecondarlo, mettendo la mordacchia ai nazionalisti rampanti: e basta guardare una cartina geografica e la rete europea di collegamenti ferroviari per capire qual’ è.

giovedì 7 luglio 2022

LA GUERRA E LA FINANZA; IL DOLLARO E LA NOSTRA PROSSIMA ROVINA

Il dollaro sale e l’ euro scende ai livelli minimi da 20 anni: e così aumentano ulteriormente  i costi dell’ importazione di idrocarburi che sono trattati in dollari e l’ inflazione conseguente all’ importazione di materie prime.

La Germania e’ in deficit commerciale per la prima volta da 30 anni.

L’  UNIPER
, il più grande importatore tedesco di gas russo, sta fallendo e Berlino tenta di salvarlo con 9 miliardi pubblici.

I capitali fuggono dall’ europa, insicura ai bordi della guerra e investita dalla crisi, e vanno negli USA che ne hanno aumentato la remunerazione alzando i tassi.

Tutti segnali della gravissima crisi in arrivo in Europa e della validità della analisi economica chiamata “Ciclo del Dollaro”.
Ecco che cos’ è:

1) Gli USA hanno ancorato il dollaro al commercio del petrolio, imponendo all’ OPEC nel 1972 che tutte le transazioni mondiali avvengano nella loro valuta, stampata a discrezione dalla loro Banca Centrale (FED) dopo che nel ‘71 era stato svincolata dalla convertibilità in oro.

2) Ogni turbolenza e destabilizzazione che riguardi direttamente o indirettamente paesi produttori di idrocarburi provoca un aumento dei prezzi in dollari e quindi una domanda di dollari per le transazioni globali che viene soddisfatta dalla FED stampando dollari distribuiti all’ estero tramite il commercio internazionale in cambio di merci (un “pezzetto di carta verde” appena stampato in cambio di beni materiali).
I capitali e gli investitori richiedono sicurezza, stabilità e buoni tassi di rendita...

3) Per evitare di andare in deficit in “conto capitale” gli USA, che vista la carenza di risparmio (5% circa) hanno bisogno di almeno 700 miliardi all’ anno per sorreggere la liquidità interna, devono periodicamente far rientrare i dollari con cui hanno irrorato il mondo negli anni precedenti e che sono serviti per alimentare la crescita delle economie locali e per acquisizioni di attività all’ estero (possibilmente a prezzi stracciati in paesi mandati in crisi).
La FED allora alza i tassi, come in questo periodo, rendendo più conveniente l’ investimento negli USA e il Governo collabora rendendo insicure, con destabilizzazioni e azioni militari, aree del mondo da cui i capitali fuggono dirigendosi verso gli insulari Stati Uniti percepiti come più sicuri.
La ricchezza finanziaria prodotta all’ estero nella parte precedente del ciclo rientra negli USA e i paesi drenati restano all’ asciutto di capitali e vanno in crisi pronti per un secondo ciclo di “tosatura” della ricchezza prodotta e di cessione di asset strategici a prezzi stracciati (mediamente il ciclo è di  6-8 anni).

4) Per controllare i flussi dei capitali finanziari si usano le variabili rapide della destabilizzazione e della guerra: ogni conflitto provoca fughe di capitali dalle aree percepite come insicure e ne  deteriora il “clima degli investimenti” ed è il più veloce ed efficace sistema per deviare i flussi finanziari.
Ad esempio la crisi Ucraina del 2014, quella di “EuroMaidan” con il “regime change” e l’ inizio della guerra civile contro il Donbass e la Crimea, ha provocato solo nei primi due mesi una fuga di capitali pari a 1.000 miliardi di dollari spostati dall’ Europa agli Stati Uniti.
La guerra del Kosovo con il bombardamento della Serbia, cui hanno partecipato paesi europei tra cui l’ Italia, ha provocato lo spostamento di 400 miliardi di dollari dall’ Europa verso gli USA.

Attualmente il flusso di dollari che dall’ Europa rientrano negli USA - bastano pochi click sui computer dei finanzieri – è certamente imponente se provoca il più grande rafforzamento della valuta americana sull’ Euro dal 2002.
E’ il risultato della tipica tattica americana di alterare il clima degli investimenti con mezzi militari e destabilizzazioni.
Ciò spiegherebbe razionalmente l’ insistenza dell’ “abbaiare della Nato alla porta di casa della Russia” citato da Papa Francesco.

Inoltre, anche se l’ aumento del prezzo degli idrocarburi danneggia temporaneamente pure gli Stati Uniti, bisogna tener presente che il rafforzamento del dollaro sull’ Euro determina anche l’ “Esportazione dell’ Inflazione” dagli USA verso l’ Europa e le altre aree del mondo verso le cui valute il dollaro si apprezza. Un’ inflazione quella americana non dovuta solo all’ aumento del costo di petrolio e materie prime ma anche endogena.

Nella contingenza attuale gli USA si avvantaggiano anche dal fatto di essere produttori di petrolio ed esportatori di gas liquefatto GNL che hanno promesso all’ Europa per diversificare, ma a carissimo prezzo. Anche perché tutta la catena degli impianti GNL (produzione, navi, rigassificatori) è fatta di acciaio: metallo che adesso ha prezzi stellari.
Il prezzo del gas si è moltiplicato per 7 in un anno mandando a gambe all’ aria l’ apparato industriale europeo, tedesco e italiano specialmente, che si basava sull’ importazione di gas russo a basso costo.
Appare infatti abbastanza folle e ideologico dover importare gas da lontano a costi altissimi quando c’è vicino a costi bassi.

Insomma quanto va succedendo a nostro greve danno è anche un modo per mitigare i gravi problemi che affliggono la società americana, fortemente in crisi e spaccata, facendo rientrare capitali e liquidità per alimentare l’ economia, esportando l’ inflazione e agitando lo spauracchio del “Nemico” contro cui compattarsi (anche con la tenue speranza di consentire a Biden di superare bene le elezioni di “midterm” di novembre).
Quando si hanno problemi interni è un classico spostare la politica all' esterno.

Il “Ciclo del Dollaro” è  diventato necessario, e vitale, agli USA da quando hanno deciso di non essere più una potenza industriale ma di diventare prevalentemente una potenza finanziaria e militare, decentrando all’ estero, dove i salari sono più bassi, tutta la produzione manifatturiera di merci a basso valore aggiunto, tranne ovviamente quella militare.
Merci però necessarie alla vita dei cittadini che ora vengono importate determinando il cronico stratosferico deficit della bilancia dei pagamenti americana.
Intere città industriali come Detroit sono praticamente sparite a causa della  terziarizzazione dell’ economia USA.

Tuttavia pare che stavolta l’ oliato, potente e ciclicamente ripetuto meccanismo geopolitico-militar-finanziario americano del “Ciclo del Dollaro” abbia fatto saltare gli equilibri su cui si reggeva il traballante Ordine Mondiale unipolare a egemonia USA dopo il crollo dell’ URSS e stia andando fuori controllo: non conviene mai far uscire l’ orso dalla caverna se non si sa come farlo rientrare… spiegava il cancelliere Otto von Bismarck.
La guerra in Ucraina rappresenta infatti una rottura dell' ordine mondiale precedente e uno scontro tra Russia e USA che travalica la guerra regionale.

Entrano qui in anche gioco i concetti di “Montagne Russe del Dollaro”, di “Tosatura  Finanziaria” e “Uso Finanziario della Guerra” che sono ben spiegati nel saggio pubblicato da Limes nel 2015 che trovate cliccando QUI.  

E  approfonditi nel libro “L’ Arco dell’ Impero” pubblicato dalle edizioni LEG con la prefazione del gen. Fabio Mini.

paolo deganutti

 


martedì 14 giugno 2022

KERNEUROPA E FUTURO DI TRIESTE


Il Termine Kerneuropa (Europa del Nocciolo) è stato usato fin dal 1996 da Schäuble (già ministro delle finanze tedesco) che proponeva di creare uno zoccolo duro per progredire nell’integrazione europea a più velocità e rinunciando all’ unanimità.

A fronte della insignificanza della Ue nella crisi ucraina Berlino decide un riarmo di proporzioni epocali (100 miliardi subito più 2% del PIL all’ anno): ridiventa così una potenza geopolitica europea a tutto campo senza rinunciare a coltivare influenza nel proprio estero vicino.
Sarebbe dunque tentata di recuperare la nozione di Kerneuropa, per tenersi stretti i territori limitrofi più integrati nella filiera produttiva dell’industria tedesca.
Un’area da mantenere aperta agli scambi commerciali e di capitali anche verso Oriente.
Di questa catena del valore fanno parte il Benelux, l’Europa centrale (Austria, Slovenia, Ungheria, Slovacchia, Cechia) e il Nord Italia, le cui eccellenze manifatturiere sono avvinte all’economia teutonica in un’inevitabile simbiosi.
Si pensi che un’ auto tedesca contiene mediamente il 40% di componenti fabbricati nel Nord Italia.
Come si relazionerebbe la Kerneuropa con gli altri attori circostanti o rilevanti nello spazio continentale?
Negli ultimi 70 anni Parigi ha sempre scommesso sul concetto esclusivo di “coppia franco-tedesca” per marcare stretto lo strapotere della Germania e cementare l’integrazione europea sull’asse del Reno.
Mentre l’ufficializzazione della Kerneuropa sancirebbe la subordinazione di Parigi (proposito irricevibile per l’ossessione di grandeur francese) e sposterebbe molto più a est della frontiera fluviale del Reno il baricentro del progetto.
La Kerneuropa sarebbe conciliante nei confronti di Mosca, poiché l’elemento germanico è da almeno tre secoli portato a cercare un’intesa con quello russo per definire le rispettive sfere d’influenza nell’Europa centro-orientale.
Ma anche perché la Russia è il principale fornitore energetico della Germania, gas e petrolio a prezzi convenienti, mentre la Cina ne è il principale partner economico (ben 213 miliardi di euro di interscambio nel 2020).
Tale sviluppo desterà l’ostilità di Polonia, Baltici e Stati Uniti. Con la prima che sconta i traumi storici delle intese fra Russia e Germania.
E con gli USA costretti per grammatica imperiale a impedire il consolidamento sul suolo europeo di un egemone o di un’alleanza che ne metta a repentaglio il predominio sul continente esercitato sul piano militare tramite la Nato.
L’Italia sarebbe esposta a una spinta centrifuga, con il motore produttivo del Nord a premere per restare nella sfera della Germania, a differenza del resto del paese, meno integrato nell’economia tedesca e che più ha patito le conseguenze della crisi finanziaria e dei vincoli imposti dall’ortodossia teutonica.
L’ Italia inoltre è nuovamente fanalino di coda in Europa con uno SPREAD BTP-BUND schizzato a 250 con un aumento del 185% in un anno, malgrado Draghi premier.
La guerra in Ucraina fa da acceleratore a tendenze geopolitiche già in atto, produce un profondo riassestamento degli assetti geopolitici e fa uscire allo scoperto le linee di rottura nella UE: ad esempio la frattura con l’ Ungheria riguardo alle sanzioni o l’ intransigenza antirussa dei Baltici che puntano alla resa dei conti con Mosca.
Trieste è lo sbocco storico e naturale della Kerneuropa a guida tedesca sul Mediterraneo, mare con valenza strategica e commerciale crescente dove, non a caso la HHLA di Amburgo ha investito in un terminal.
Si pensi che il Porto Franco Internazionale di Trieste lavora per il 90% con quest' area.
Gli interessi di Trieste coincidono in massima parte con quelli della Kerneuropa.
Piaccia o no questa è la linea di tendenza oggettiva dell’ evoluzione geopolitica: se ne traggano le conseguenze.

pd
La cartina è tratta da Limes 2018 ed è di Laura Canali.

venerdì 25 febbraio 2022

UCRAINA - IL TRAMONTO DELL’ OCCIDENTE: “Dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur” (Tito Livio), MENTRE A BRUXELLES SI DISCUTE KIEV E’ ESPUGNATA –

 


QUANDO SI VUOLE STRAVINCERE E METTERE UN AVVERSARIO CON LE SPALLE AL MURO BISOGNA ANCHE ESSERE DETERMINATI A USARE LA FORZA PER SPEGNERNE LA INEVITABILE REAZIONE.

E TRIESTE ?

Ucraina: dalla fomentata “Rivoluzione Arancione” di piazza EuroMaidan del 2013, con annesso colpo di stato, alla promessa di entrata nella UE e Nato, all’ abbandono di fronte alla reazione di una Russia che si sente minacciata dal progressivo allargamento a Est dell’ Alleanza Atlantica.
Qual’ è la credibilità di un Occidente che sembra avviarsi sul viale del tramonto?
L’ “ombrello americano” protegge ancora?

Non è nostro compito, animati come siamo da spirito neutralista e pacifista, attribuire ragioni o torti nella triste e pericolosissima vicenda ucraina, ma solo cercare di capire gli eventi e le loro motivazioni che non sono “folli e deliranti” come si usa scrivere, ma rispondenti a una logica geopolitica serrata che vede  l’ Oriente (Russia, Turchia, Cina) espandersi nei vuoti lasciati da UE e USA: dalla Libia all’ Albania, da Africa alle aree ex-sovietiche.

Infatti mai una guerra come quella in corso in Ucraina è stata prevedibile, prevista e preannunciata a gran voce. Ma, malgrado le promesse UE e USA durante le manifestazioni “EuroMaiden” del 2013, il presidente Ucraino Zelens'kyj ha dichiarato stamane: “Ci hanno lasciati soli”.
Imbottiti di armi occidentali, ma soli: tragicamente della serie “vai avanti tu che a me …

Ci si domanda quanto valgano le promesse e gli “ombrelli militari” americani ed europei in questa fase di loro evidente declino e dopo il catastrofico ritiro dall' Afganistan.
E’ una domanda che cominciano a farsi anche a Taiwan da sempre considerata dalla Cina parte integrante e rivendicata del suo territorio.

Un paese e la sua popolazione è stato indotto a spingersi oltre le “linee rosse” sopportabili dalle potenze confinanti, al punto di illudersi di poter aderire a una alleanza militare ostile (Nato), fiducioso della copertura occidentale.
Che si limita a sanzioni poco efficaci che rischiano di diventare un boomerang per tutta l’ Europa.
Parliamo di “linee rosse” molto chiare ed evidenti esaminando la storia e la situazione ucraina.
Oggi sul Piccolo il prof. Stefano Pilotto dell’ università di Trieste scrive:
“ Occorre comprendere il modo di ragionare dei russi, la loro cultura. Occorre rivisitare la storia per capire le ragioni degli uni e degli altri. …. Il popolo ucraino ed il popolo russo sono stati il medesimo popolo per secoli: la stessa civiltà russa nacque da quella ucraina.
Il Rus di Kiev (cioè la regione di Kiev), nata alla fine del IX secolo dopo Cristo, si estese verso est nel corso dei secoli seguenti, dopo la conversione al cristianesimo di rito bizantino del principe Vladimir, nel 988 dopo Cristo.
Kiev rappresentò progressivamente un faro per le popolazioni slave e russe, nell’ambito dello sviluppo del cristianesimo ortodosso e l’area di Pecherska Lavra (i monasteri delle grotte) a Kiev diventarono il massimo centro religioso della chiesa russa cristiano – ortodossa. Lo sviluppo della regione di Kiev, nel corso dei secoli seguenti, seguì di pari passo quello della Russia, sia durante il periodo imperiale (la Russia degli zar), sia durante quello sovietico.
Durante la seconda guerra mondiale il popolo ucraino e russo combatterono uniti per la loro libertà di fronte all’attacco delle forze tedesche e loro alleate, dal 1941 al 1945.
In Ucraina, tuttavia, alcune migliaia di cittadini si unirono alle forze tedesche, sposarono la causa del nazionalismo ucraino antisovietico e si identificarono nell’azione di Stepan Bandera.
Furono migliaia di ucraini che aderirono al nazionalsocialismo: ecco il riferimento odierno di Putin alla denazificazione. Egli ritiene che gli esponenti radicali ucraini che desiderano entrare nella Nato oggi siano i discendenti ideologici di quelle migliaia di ucraini che fra il 1941 ed il 1945 si unirono alle forze tedesche agli ordini di Hitler.
Quando, nel 1991, la disintegrazione dell’Unione Sovietica portò all’indipendenza dell’Ucraina, le forze filo-occidentali ripresero corpo, animarono la rivoluzione arancione di Viktor Yushenko e di Yulia Timoshenko (EuroMaiden 2013),  provarono ad aprire le porte alla Nato e trascurarono la necessità di mantenere una buona relazione con Mosca.
Dal 2008 la Russia mandò messaggi a Kiev attraverso l’interruzione del gas.
 Nel 2014, dopo il colpo di stato a Kiev, i russi reagirono con l’incorporazione della Crimea nella Federazione Russa e con la tutela della regione orientale del Donbass, in attesa che gli accordi di Minsk (11 febbraio 2015) venissero rispettati da Kiev, mediante una riforma costituzionale che permettesse di creare due regioni autonome a Donetsk e Luhansk. Nel corso degli ultimi sette anni nulla è stato fatto, anzi, Kiev ha cercato sempre di più di cedere alle lusinghe sia della Nato che dell’Unione Europea, ha ricevuto armi e sostentamento, mentre nel Donbass si consumava una catastrofe umanitaria.”

A proposito: sui media occidentali non rileviamo alcun interesse per il parere  delle popolazioni russofone del Donbass  su quanto sta succedendo.

E TRIESTE ?
Trieste che sta proprio sopra una faglia geopolitica ha sempre avuto danni gravi dal riacutizzarsi delle tensioni e dai climi da “guerra fredda”ed ha un solo strumento di difesa: il Porto Franco Internazionale che è stato alla sua origine di città moderna e motore di sviluppo economico e che è stato ribadito dal Trattato di Pace del 1947 che lo regola con il suo Allegato VIII, che ancora attende applicazione integrale.
Il  Porto Franco Internazionale  per sua natura è neutrale rispetto agli schieramenti internazionali.

Paolo Deganutti


Due citazioni per riflettere:

Oswald Splengher “Il Tramonto dell’ Occidente” Vienna 1918:-
“Il «tramonto del mondo antico», lo abbiamo dinanzi agli occhi, mentre già oggi cominciamo a sentire in noi e intorno a noi i primi sintomi di un fenomeno del tutto simile quanto a decorso e a durata, il quale si manifesterà nei primi secoli del prossimo millennio, il «tramonto dell'Occidente».”-


Jarrett Diamond “Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere” Boston 2005:
«Il mio ultimo motivo di speranza è frutto di un'altra conseguenza della globalizzazione. In passato non esistevano né gli archeologi né la televisione. Nel XV secolo, gli abitanti dell'isola di Pasqua che stavano devastando il loro sovrappopolato territorio non avevano alcun modo di sapere che, in quello stesso momento ma a migliaia di chilometri, i Vichinghi della Groenlandia e i Khmer si trovavano allo stadio terminale del loro declino, o che gli Anasazi erano andati in rovina qualche secolo prima, i Maya del periodo classico ancora prima e i Micenei erano spariti da due millenni.

Oggi, però, possiamo accendere la televisione o la radio, comprare un giornale e vedere, ascoltare o leggere cosa è accaduto in Somalia o in Afghanistan nelle ultime ore. I documentari televisivi e i libri ci spiegano in dettaglio cosa è successo ai Maya, ai Greci e a tanti altri.

Abbiamo dunque l'opportunità di imparare dagli errori commessi da popoli distanti da noi nel tempo e nello spazio. Nessun'altra società ha mai avuto questo privilegio. Ho scritto questo libro nella speranza che un numero sufficiente di noi scelga di approfittarne.»-