RESTITUIRE TRIESTE AL FUTURO -

AUTONOMI DALL' ITALIA MA CONNESSI CON IL MONDO - RESTITUIRE TRIESTE ALLA MITTELEUROPA - RESTITUIRE TRIESTE AL SUO FUTURO: CENTRALE IN EUROPA INVECE CHE PERIFERICA IN ITALIA -

sabato 15 ottobre 2016

TRUMP O CLINTON ? EUROPA ATTENTA A CLINTON ! - Un articolo di LIMES in occasione dell' invio di truppe italiane ai confini russi - "In un’ottica europea, l’esecrato Donald Trump sarebbe il male minore: il suo isolazionismo promette poco, ma chiede ancor meno. Viceversa, Hillary imporrà al Vecchio Continente il suo interventismo. Precipitando una crisi transatlantica."

Visto che il Governo Amministratore Provvisorio di Trieste comincia a mandare truppe ai confini con la Russia in Lettonia, in spregio del' art. 11 della Costituzione che vuole stravolgere, e considerato che a Trieste abbiamo verificato con le Guerre Jugoslave degli anni '90 come queste cose evolvono e sfuggono di mano, pensiamo sia ora di mettere da parte il "politicamente corretto" e di occuparsi di cose più sostanziali delle abitudini sessuali dei due candidati americani: l' uno accusato di essere un maiale e l' altra di essere in realtà lesbica.

Malgrado la Clinton evochi "l' Apocalisse" e Obama la "fine della democrazia" in caso di vittoria dell' avversario, noi i
nvece di "parlare alla pancia" preferiamo parlare alla testa e pubblichiamo per i nostri lettori un articolo della rivista di geopolitica Limes, diretta da Lucio Caracciolo e parte del Gruppo Espresso:

EUROPA ATTENTA A CLINTON !di 

In un’ottica europea, l’esecrato Donald Trump sarebbe il male minore: il suo isolazionismo promette poco, ma chiede ancor meno. Viceversa, Hillary imporrà al Vecchio Continente il suo interventismo. Precipitando una crisi transatlantica.


1. IN QUESTI TEMPI DI POPULISMO, le affermazioni apparentemente incredibili vanno motivate rigorosamente. Dunque se dico che per gli europei Donald Trump sarebbe meglio di Hillary Clinton, devo fornire una spiegazione convincente.
Non voterei mai Trump. Come ogni demagogo americano che si rispetti – da Huey Long a Douglas MacArthur, da Joseph McCarthy a George Wallace – il candidato repubblicano spesso gioca con la realtà. Mente apertamente, come quando ha detto che al tempo dell’11 settembre grandi folle di musulmani in New Jersey festeggiarono gli attentati; oppure distorce i fatti, come quando lascia intendere di poter imporre al presidente del Messico la costruzione di un gigantesco muro per impedire ai suoi connazionali di attraversare il confine con gli Stati Uniti.
Non si tratta di errori compiuti in buona fede; del resto, il mondo abbonda di ridicole teorie della cospirazione che passano per vere (il sottoscritto si è sentito dire da tedeschi sani di mente che l’11 settembre fu opera di George W. Bush). Per quanto in voga nei caffè europei alla moda, il post-modernismo altro non è che una forma di nichilismo, perché in politica come nella vita ci sono delle verità (Cina e India stanno emergendo e l’Europa è in declino, per esempio) che devono essere riconosciute come tali da noi, discendenti di Pericle e Aristotele. Cercare la verità in politica per rendere il mondo migliore è il nostro lavoro, anzi è la nostra vocazione. I demagoghi che oscurano volutamente la verità sono i nemici dei liberi pensatori, a prescindere dalla loro affiliazione politica. Già questo mi basta per non votare Trump.
È comunque altamente improbabile che Trump vinca le elezioni. Gli uomini bianchi arrabbiati non sono più maggioranza nell’elettorato statunitense, se mai lo sono stati. Trump è riuscito ad alienarsi le donne (il maggior blocco elettorale negli Stati Uniti), i neri (il blocco più fedele ai democratici) e gli ispanici (il segmento elettorale a più rapida crescita). Etica a parte, è possibile alienare due di questi gruppi e vincere, ma con tutti e tre contro la sconfitta appare una questione matematica. Trump ha il tasso di approvazione più basso di chiunque abbia mai corso per la presidenza nella moderna storia politica americana. Un sondaggio Gallup di maggio 2016 ha rivelato che un astronomico 87% degli ispanici vede negativamente il candidato repubblicano, posizione condivisa dal 70% delle donne. Alla fine di giugno Hillary Clinton staccava di cinque punti il rivale nella media dei sondaggi nazionali ed era davanti a lui (anche se con un margine inferiore) negli Stati chiave, come Florida, Ohio e Pennsylvania. a fine agosto il distacco appariva ancora più netto.
Eppure, Trump ha una chance di vittoria, per quanto esigua. Se riesce a mobilitare in gran numero i bianchi diplomati, così scoraggiati dalla globalizzazione da non prendersi di solito la briga di votare, potrebbe ottenere un esiguo ma determinante vantaggio negli Stati della rust belt: Pennsylvania, Ohio, Michigan, Wisconsin e Iowa. Se Trump staccasse la Clinton di una manciata di punti in ognuno di questi Stati, l’impensabile potrebbe diventare possibile. Questo scenario è tuttavia alquanto improbabile; verosimilmente, la Clinton otterrà una vittoria ampia, se non schiacciante.
L’altra ragione per cui Donald Trump è nocivo all’America è che, come la maggior parte dei demagoghi, se ne infischia della costituzione degli Stati Uniti, che in ultima analisi è ciò che tiene insieme questo paese così eterogeneo. Come chiarisce il personaggio interpretato da Tom Hanks nel Ponte delle spie, la costituzione è il cemento che tiene insieme l’America. I francesi hanno avuto cinque repubbliche, gli Stati Uniti solo una. Questa eccezionale stabilità politica è una circostanza storica essenziale ed è resa possibile quasi esclusivamente dall’adesione di ogni generazione alla costituzione. Minacciarla, come Trump fa apertamente ogni qualvolta disprezza lo Stato di diritto, rende l’uomo un nemico pubblico.

2. Non c’è dubbio che Trump ignori realtà obiettive (o le mistifichi), abbia poche possibilità di essere eletto e sia un pericolo per la costituzione e per il paese. Ciò detto, se fossi un europeo e se avessi a cuore più di ogni altra cosa gli interessi di politica estera dell’Europa, riterrei Trump di gran lunga meglio dell’apparentemente filoeuropea Clinton.
Dirò di più. Dopo che l’Europa avrà tirato un sospiro di sollievo collettivo per la sconfitta di Trump, la neoeletta Hillary Clinton innescherà una storica crisi della relazione transatlantica, determinata dall’incolmabile ma trascurato divario tra l’andazzo del Vecchio Continente e i desiderata della nuova amministrazione.
Usciamo per un attimo dal polverone di questa campagna elettorale e facciamo un semplice esperimento teorico, ponendoci nell’ottica della politica estera europea. Il candidato presidente A ha criticato apertamente il movimento neoconservatore, additandolo come l’elemento più pernicioso nella storia recente della politica estera americana. Dopo due decenni di dominio neocon del Partito repubblicano, il candidato A ha emarginato il movimento ed è determinato a far sì che l’America non sia più il gendarme del mondo.
A è altresì contrario alla maggior parte dei trattati commerciali in fieri o in essere, avendo aspramente criticato sia l’accordo Usa-Asia (Tpp, Trans-Pacific Partnership), sia quello Usa-Europa (Ttip, Transatlantic Trade and Investment Partnership). A ha detto chiaramente che la guerra in Iraq è stata un disastro e che George W. Bush ha mentito sul pretesto di quell’intervento. A promette di essere duro con i sauditi e vuole giocare un ruolo assolutamente neutrale nella disputa israelo-palestinese. A crede di poter migliorare i rapporti con la Russia di Putin, facendone una priorità della sua politica estera. A considera la Nato obsoleta e crede che, specie in caso di riavvicinamento al Cremlino, l’alleanza dovrebbe concentrarsi sull’immigrazione e sulla lotta al terrorismo, rivolgendosi a sud invece che a est.
Durante il suo grande discorso sulla politica estera dell’aprile 2016, il candidato A ha affermato che l’America dovrebbe ricorrere alla guerra solo come opzione di ultima istanza e che appena eletto si consulterà con i leader di Russia e Cina, per stemperare le tensioni internazionali. Per dirla con le sue parole: «A differenza di altri candidati alla presidenza, non ho tra i miei istinti primari la guerra e l’aggressione. Una superpotenza comprende che la cautela e l’autocontrollo sono i veri attributi della forza». Affermazioni che, al pari delle altre posizioni di cui sopra, potrebbero essere sottoscritte da gran parte dell’élite europea.
Viceversa, il candidato B ha sostenuto la guerra in Iraq e il disastroso intervento in Libia. B è contro i grandi accordi commerciali solo a parole, e cinicamente si scaglia contro il Tpp che egli stesso ha contribuito a negoziare. Interventista fino al midollo, B auspica maggiori legami con Israele, un maggior coinvolgimento occidentale nel ginepraio siriano (attraverso l’istituzione di una zona d’interdizione aerea) e un maggior attivismo dello stesso Occidente in Ucraina, sia armando gli ucraini sia prendendo di petto Putin. Sconfessando il realismo in incognito di Obama, B sprona l’Europa a fare di più e a seguire l’America nella sua politica estera interventista.
Come direbbe Bob Dylan, non serve un meteorologo per sapere da che parte tira il vento. Le politiche di A si attagliano all’Europa molto più di quelle di B. Per inciso, A è l’odiato Donald Trump, mentre B è la rispettata Hillary Clinton (rispettata almeno in Europa, perché in America è il secondo candidato presidenziale meno amato da quando esistono i sondaggi, superata per impopolarità solo da Trump). Quest’esito stupefacente palesa a chiunque abbia occhi per vedere quanto negli ultimi vent’anni la classica visione europea della politica estera si sia allontanata da quella dell’establishment statunitense.
Le politiche della Clinton si confanno al breve periodo del dominio unipolare americano anni Novanta, quando suo marito era presidente. Nel mondo multipolare di oggi invece, le sue ricette unilaterali fanno solo danni. L’élite europea ha ragione a temere Trump, tuttavia non capisce che la prossima crisi transatlantica non sarà causata dal miliardario, bensì dai futili sforzi della Clinton per riportare in auge la primazia statunitense con un interventismo ormai anacronistico e controproducente.


3. Ovviamente vi sono aspetti dell’ipotetica politica estera di Trump che turbano gli europei. «The Donald» promette di andarci giù pesante con la Cina, imponendo un astronomico dazio del 45% sulle merci cinesi a prescindere da cosa dica l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), il che innescherebbe una guerra commerciale tra le due maggiori economie del mondo in una fase di perdurante debolezza dell’economia europea. Trump ha inoltre accennato al fatto di non gradire l’accordo sul nucleare con l’Iran, ma qualsiasi tentativo di sabotarlo sarebbe accolto dal netto rifiuto europeo di ripristinare le sanzioni e precipiterebbe in una crisi transatlantica, rinfocolando al contempo le tensioni in Medio Oriente.
Trump (al pari di Obama) rinfaccia agli europei di non contribuire sufficientemente alla Nato, gravando come un peso morto sugli Stati Uniti. Egli sottolinea giustamente che appena quattro dei ventotto membri dell’Alleanza spendono almeno il 2% del pil nella difesa, sebbene questo modesto impegno sia stato sottoscritto da tutti a più riprese. Trump promette di obbligare ognuno a rispettare gli impegni; avendo lavorato nel ramo per tre lustri, gli auguro buona fortuna.
Il candidato repubblicano, con sommo sdegno degli europei, avversa il grosso degli accordi e delle istituzioni multilaterali che possano limitare la libertà d’azione dell’America; del resto, difficilmente chi non vede un limite nella costituzione intende farsi condizionare da concetti nebulosi come il diritto e la comunità internazionale. Ciò infrange tutti i princìpi delle élite europee che si occupano di politica estera, specie ora che i britannici se ne sono andati.
Malgrado tutti questi caveat, la politica estera di Trump è qualcosa con cui gli europei possono convivere, se non altro perché non chiede loro quasi nulla. Trump offre all’America una politica estera antimmigrazione, protezionista, isolazionista e unilaterale, di norma appannaggio della minoritaria ala nazionalista del Partito repubblicano. A un’Europa attanagliata dalla crisi dell’euro, dall’emergenza rifugiati e dal Brexit, «The Donald» offre invece una pausa, una vacanza dalla storia in cui tentare di risolvere i pressanti problemi interni. Questa ragione, da sola, fa di Trump una buona notizia per l’Europa.

4. Concludiamo immaginando un’altra situazione, che verosimilmente collocheremo all’inizio del 2017. Una Hillary Clinton fresca di elezione incontra la cancelliera tedesca Angela Merkel. Le parla francamente, in una conversazione che si volge più o meno così.
«Angela, ora che ho scongiurato il pericolo del populismo in America, uno spettro che so turbare anche te, sappi che a Washington hai un partner che condivide i tuoi stessi valori. Siamo entrambe wilsoniane, crediamo nel diritto e nella comunità internazionale, reputiamo necessario lavorare attraverso le istituzioni multilaterali ogni qualvolta sia possibile. Diamo entrambe importanza ai diritti umani e alla risoluzione delle questioni internazionali mediante il compromesso. E siccome la nostra comune visione del mondo e i nostri valori condivisi hanno trionfato politicamente sulle perniciose forze del populismo, è tempo che noi agiamo insieme e con forza. Esorto pertanto te e il resto dell’Europa a raggiungere quanto prima gli obiettivi di spesa della Nato, per aiutarci ad armare gli ucraini e a opporci a Putin, per istituire una no-fly zone sulla Siria e per mandare truppe in Libia in funzione di nation building».

Immagino sia questo il momento in cui Merkel ridacchia nervosamente, si guarda le scarpe… e non succede nulla. Questo è anche il momento in cui si apre ufficialmente la crisi dei rapporti tra Europa e Stati Uniti. Se infatti due leader dalla mentalità e dai valori affini come Merkel e Clinton non riescono a forgiare politiche comuni, cosa resta della relazione transatlantica?
Una presidenza Trump rinvierebbe il momento della verità, ma tale esito è improbabile. Lo scenario più verosimile è quello di un’ampia vittoria di Hillary Clinton, che quasi certamente porterà a una crisi dei rapporti transatlantici nel corso del prossimo anno. Se Trump è il peggio per l’America, Clinton è il peggio per l’Europa: qui sta il paradosso di queste elezioni.
(traduzione di Fabrizio Maronta)



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