RESTITUIRE TRIESTE AL FUTURO -

AUTONOMI DALL' ITALIA MA CONNESSI CON IL MONDO - RESTITUIRE TRIESTE ALLA MITTELEUROPA - RESTITUIRE TRIESTE AL SUO FUTURO: CENTRALE IN EUROPA INVECE CHE PERIFERICA IN ITALIA -

venerdì 12 ottobre 2018

EURONOMANI - INFORTUNIO DEL PICCOLO: CITA AD ESEMPIO PER IL DEBITO SVEZIA, DANIMARCA E NORVEGIA, MA TUTTE SONO FUORI DALL' EURO E LA NORVEGIA PURE DALLA UE (COME LA SVIZZERA) - HANNO MONETA E BANCA CENTRALE PROPRIA E NON HANNO FATTO L' AUSTERITY IMPOSTA DALLA UE - AUTOGOL PER IGNORANZA O MANIPOLAZIONE CONSAPEVOLE ?


Ormai è una battaglia forsennata dei media mainstream, soprattutto del gruppo Espresso come Il Piccolo, contro la politica economica espansiva del nuovo governo.

Fa leva sulla diffusissima ignoranza economica in cui è immersa l' Italia grazie a decenni di propaganda neoliberista, teologia dogmatica economica cui si è convertito da tempo il PD che appoggia ogni politica antipopolare in nome del "pareggio di bilancio" imposto dalla Merkel.


La manipolazione delle notizie è spudorata.
L' altro ieri Il Piccolo ha pubblicato un articolo di fondo in cui si irride alla politica keynesiana portata avanti da ministri come Paolo Savona aggirando il bersaglio vero (Savona) con la proposta ironica del Nobel per i Vicepremier.


Però è incorso in un infortunio grave: per lui.
Il Piccolo cita come esempio di virtù tre paesi che sono tutti fuori dall' Euro: Svezia e Danimarca ognuno con moneta e banca centrale propria, e la Norvegia che addirittura NON aderisce nemmeno alla UE come la Svizzera.

In realtà i paesi europei che stanno bene, crescono ed hanno debito pubblico basso sono proprio quelli fuori dall' Euro e che non sono stati sottoposti alle scriteriate politiche economiche della UE che hanno portato al collasso le economie della periferia Sud e arricchito la Germania e satelliti.


La cura imposta è stata quella dell' Austerity ovvero del SALASSO: esattamente come i medici medioevali che aggravavano fino alla morte i pazienti a son di sanguisughe in ossequio a teorie mediche (ed economiche) totalmente campate in aria e chiaramente dannose: come l' esperienza di 10 anni di malagestione della crisi dimostra anche ai ciechi.


Il fatto che si citino ad esempio tre paesi fuori dall' Euro e dalle demenziali politiche economiche di Bruxelles è dovuto a:

1) In TUTTI i paesi dell' area Euro il debito pubblico è salito molto in seguito alle politiche di 
austerity della UE 
 e di salvataggio delle banche, con aumenti pesantissimi in paesi come l' Italia che dal 102% del 2008 e' arrivata al 132% attuale grazie all' austerity di Monti, PD, FI & Company che hanno fatto crollare l' economia con un prelievo fiscale da rapina, la Fornero, il crollo degli investimenti pubblici.
Quindi non ci sono paesi da portare ad esempio nell' area Euro e bisogna citare Svezia, Danimarca, Norvegia e Svizzera che sono fuori e stanno benissimo malgrado siano paesi piccoli.

2) Chi ha scritto l' articolo e chi lo ha pubblicato confidano nel fatto che il loro pubblico non si accorga che i paesi citati  come virtuosi sono fuori dall' Euro (e pure dalla UE) grazie alla massiccia dose di disinformazione propinata fino adesso.

Inoltre mentre qui i media mainstream fanno il diavolo a quattro per il famoso 2,4% di deficit (inferiore al 3% previsto dai trattati, a quello dei precedenti governi e a quello della Francia  di san Macron) gli investitori americani fanno incetta di BTP italiani ritenuti convenienti, come attesta il Sole 24Ore (clicca QUI): ma questo il Piccolo non lo dice.

E' chiaro che nessun speculatore sano di mente (e Soros lo è) si sogna di attaccare la Danimarca, come ipotizza l' articolo, che ha moneta propria e Banca Centrale propria in grado di intervenire acquistando i titoli di stato danesi anche all' infinito se necessario  per tenere bassi i tassi.


Prerogativa che aveva anche l' Italia fino al 1981 quando  c'è stato il famoso divorzio, voluto dall' estero, tra Banca d' Italia e Tesoro e quindi la fine della funzione di "paracadute" della Banca Centrale: questo il vero motivo dell' aumento del debito pubblico che è stato dovuto a interessi e non a spesa pubblica per il welfare. 

L' Italia è in avanzo primario da oltre 20 anni, ovvero  lo stato spende meno di quello che incassa, interessi a parte.
Prerogativa che l' Italia non ha nemmeno ora perchè la BCE ha l' assurdo divieto di fare il "prestatore di ultima istanza" acquistando titoli di stato alle aste primarie, in ossequio ai precetti della teologia ordoliberista.

Chiariamo ai soliti critici che il nostro interessamento alle questioni economiche italiane è ovvio perchè anche Trieste ne risente pesantemente quale che sia l' opinione sullo status giuridico del TLT.


P.S. Svezia e Danimarca non sono entrati nell' Euro e la Norvegia (come la Svizzera) nemmeno nella UE perchè sono barbari incivili, nazionalisti e sovranisti?

Ecco l' articolo di Fondo del Piccolo che vuole essere derisorio ma è invece ridicolo:


LETTERA AI VICEPREMIER IN “PROFUMO” DI PREMIO NOBEL

Cari Di Maio e Salvini, sono davvero dispiaciuto che non vi sia stato assegnato il Nobel per l’Economia. Credo che la spiegazione prima stia nel provincialismo e nel settarismo dei norvegesi e degli svedesi. Dentro e fuori l’Ue, entrambi s’ostinano a pensare che bisogna rispettare gli impegni presi. Sono pieni di pregiudizi, convinti che gli italiani, oramai più mediterranei degli spagnoli e dei portoghesi, siano propensi all’ozio improduttivo e felice che impedirà qualsiasi riduzione del debito pubblico (attualmente al 130% del Pil) e quindi richiederà molti soldi per pagare gli interessi sui prestiti. Effettuano una comparazione un po’ azzardata con i loro debiti pubblici: 29% in Norvegia; 42,2 in Svezia. Che sia questa la ragione per la quale ai “mercati” non passa mai per la testa di speculare contro quei due paesi? Neppure George Soros, evocato da Salvini, specula contro la Danimarca che, piccola com’è, sarebbe un bocconcino facile facile da mangiare e deglutire. Il fatto è che i “fondamentali” danesi sono in ordine, mentre gli italiani sono un po’ balzani. Sostiene il ministro Tria che si raddrizzeranno in futuro quando la manovra farà impennare il tasso di crescita dell’economia italiana. Qui, però, tornano i mercati che, debbo proprio dirvelo, sono fatti da operatori economici dei più vari tipi. Quegli operatori, fra i quali ci sono parecchi italiani, hanno come compito istituzionale, non quello, come sembra crediate voi, di rovesciare i governi, ma di fare investimenti redditizi. Non appena subodorano che qualche governo, nonostante consigli, avvisi, indicazioni della Commissione Europea che proprio non vuole sovrintendere a guai economici, fa il furbo e scommette su implausibili prospettive positive, ne traggono le conseguenze. Così sale lo spread poiché il divario di rendimento fra i buoni del Tesoro italiani e, soprattutto, ma non solo, quelli tedeschi, significa che comprare i buoni italiani diventa rischioso. Investitori/speculatori e agenzie di rating sono i poteri forti di cui voi denunciate le manovre? Difficile dirlo, ma dovrebbe essere facile anche per voi, al fine del conseguimento del Premio Nobel 2019, capire che investitori e valutatori sono interessati a guadagnare, non a gufare e meno che mai a puntare su disastri economici. Però, se i disastri ci sono o diventano probabili, allora, sì, puntano il loro denaro per vincere. Adesso che ne sapete di più, potreste rifare due conti. Grazie e auguri. — 

martedì 9 ottobre 2018

VIE DELLA SETA - TRIESTE, VENEZIA E GENOVA: IL SOLITO "TRIANGOLO DELLA MORTE" - MAL DI PANCIA PER I SUCCESSI DI TRIESTE E L' IMMINENTE FIRMA DEL MEMORANDUM CON LA CINA - Da Repubblica dell' 8/10: "Lo scalo giuliano si è mosso per primo: c’è un’ipotesi in fase avanzata di definizione con i cinesi per affidare loro la costruzione e la gestione di un nuovo molo" - TRE ARTICOLI DA LEGGERE

da Repubblica dell' 8/10: "Un’immagine del porto di Trieste. Lo scalo giuliano si è mosso per primo: c’è un’ipotesi in fase avanzata di definizione con i cinesi per affidare loro la costruzione e la gestione di un nuovo molo"

Come sempre quando per Trieste si offrono buone prospettive da Venezia, Genova e parte dell' Italia si elevano alti lamenti.
E' uno dei sintomi del fatto che gli interessi di Trieste confliggono, da sempre, con quelli dello Stivale e dei porti italiani.
A farsi portavoce dei mal di pancia italiani con particolare entusiasmo è il gruppo editoriale Espresso, di cui fa parte il Piccolo, che nella sua forsennata guerra al nuovo Governo non perde occasione di attaccarne qualsiasi azione, anche se positiva come l' interessamento operativo per le Nuove Vie della Seta e per farne di Trieste lo scalo principale.


Lasciamo giudicare ai lettori e sotto riproduciamo tre articoli.


Due di Repubblica che evocano oscuri pericoli riguardo le Nuove Vie della Seta e danno spazio ai lamenti veneziani per i probabili investimenti cinesi a Trieste e uno del Corriere che invece evidenzia gli aspetti molto positivi per lo sviluppo dell' "Ecosistema Trieste" in cui coesistono due eccellenze: le istituzioni scientifiche e il Porto Franco internazionale.

Ecco gli articoli:

1) TRIESTE, VENEZIA E GENOVA TERZO INCOMODO - IL DERBY DEI PORTI ITALIANI PER LA VIA DELLA SETA

LE ROTTE MARITTIME CHE COLLEGANO LA CINA E L’EUROPA TERMINANO IN CIMA ALL’ADRIATICO.
LO SCALO GIULIANO SEMBRA IN VANTAGGIO MA GLI ALTRE DUE NON DEMORDONO. LE LITI TRA I CAMPANILI SONO PERÒ UN RISCHIO PERCHÉ MINANO IL NOSTRO POTERE CONTRATTUALE CON PECHINO 

di Filippo Santeffi - Repubblica  8/10

Sulla nuova Via della seta, i treni e le navi di XiJinping viaggiano a pieno carico. E il governo gialloverde ha una gran fretta di saltarci sopra. «Il memorandum d' intesa con la Cina è prossimo alla firma», aveva detto a inizio settembre il ministro dell’Economia Giovanni Tria durante la sua visita ufficiale in Cina. «Vorremmo firmarlo già a inizio  novembre quando tornerò a Shanghai, ha specificato qualche giorno fa il vice premier Luigi Di Maio, nelle pause del primo di due viaggi ravvicinati a Oriente. Il governo di Lega e 5Stelle, alla forsennata ricerca di risorse per rispettare le sue promesse elettorali, vede nel Dragone un partner disposto a offrirle. E nel grande progetto infrastrutturale con cui Xi Jinping vuole proiettare la Cina nel mondo, a cui l’Italia sarebbe il primo Paese del G7 e il primo membro fondatore della Ue ad aderire, la chiave per attivare un prezioso flusso di investimenti. Quali investimenti però ancora non è chiaro. E senza un piano complessivo il memorandum che ci apprestiamo a firmare rischia di rimanere un documento vuoto, o addirittura controproducente. «Il fatto di essere il primo Paese di questa importanza ad aderire ci aiuterà a ottenere termini migliori», dice il sottosegretario allo Sviluppo economico Michele Geraci, grande conoscitore della Cina che in questi giorni sta negoziando i dettagli. Ammette però che il memomandum andrà poi riempito di contenuti concreti. Il punto su cui gli interessi di Italia e Cina convergono sono i porti. La Via della seta marittima disegnata da Pechino ha il Mediterraneo come punto di arrivo, rotta che rispetto a quella del Nord fa risparmiare cinque giorni di navigazione. E se è vero che i cinesi si sono già assicurati il controllo del Pireo dalla disastrata Grecia, attraccare in Nord Italia eviterebbe alle merci il complesso attraversamento dei Balcani. Qui però iniziano i problemi, perché negli ultimi mesi i porti del Nord Tirreno e del Nord Adriatico hanno ingaggiato un duello di campanili (????per assicurarsi i fondi del Dragone , senza che i governi, il precedente o l’attuale, abbiano indicato delle priorità. Trieste, che si è mossa per prima, sembra in vantaggio: i cinesi costruirebbero e gestirebbero un nuovo molo.
Ma né Venezia né Genova si rassegnano alla sconfitta. «Il nostro porto muove una quantità dimerci sei volte maggiore rispetto a Trieste -dicel' assessore allo Sviluppo economico del capoluogo ligure Giancarlo Vinacci - ed è connesso all’importante corridoio europeo che porta a Rotterdam».
Ai cinesi, spiega, sono stati mostrati i progetti per l’allargamento e per il cosiddetto “bruco”, un tunnel ferroviario che porterebbe i container all’interporto di Mortara, oltre l’Appennino. Alle questioni tecniche però si intrecciano quelle politiche, legate ai colori delle giunte e ai delicati equilibri tra Lega e 5Stelle. «Per pagare una cambiale all’elettorato 5Stelle il ministro dei Trasporti Toninelli ha bloccato i lavori del terzo valico appenninico, siamo al boicottaggio interno», spi ga Alessia Amighuni, responsabile Asia Center del think tank Ispi. In Liguria infatti il colosso cinese dei trasporti Cosco aveva già messo un piedino nel terminai di Vado, un test che senza il terzo valico rischia di fallire. L’imprevedibilità del governo giallo-verde preoccupa non poco le autorità comuniste (???). A sentire le dichiarazioni di Geraci la partita parrebbe chiusa per Trieste, ma in Cina li suo capo Luigi Di Mao ha buttato nel calderone pure i porti del Sud. E anche aldilà dei moli le prospettive non sono più chiare. Ad ogni incontro con le autorità cinesi esce dalle carteffine il dossierAlitalia. Fiumicino, ecco l’esca italiana, potrebbe essere uno hub strategico per l’Africa, dove gli interessi cinesi sono fortissimi. Ma non è un mistero che Pechino abbia già rifiutato più volte. Così nella sua recente visita Di Maio si è limitato a parlare di un rafforzamento dei collegamenti tra la nuova Alitalia (pubblica?) e la Cina, una “via della seta aeronautica”, citando invece Condotte, in amministrazione controllata, come possibile target di investimento. L’ipotesi più concreta al momento sembra quella di Huawei, uno dei colossi cinesi più attivi lungo la Via della Seta, che starebbe considerando l’Italia per un nuovo centro di ricerca dedicato al 5G. Candidate Milano e la stessa Genova. Nel complesso, menù piuttosto scarno e confuso. Specie considerato che con la firma dell’Italia Pechino pianterebbe una bandierina nel cuore dell’Europa. Secondo Di Maio il governo sta chiedendo di più in cambio, come la revisione dell’accordo che ci impedisce di esportare in Cina le arance via aereo. Durante la sua visita a Cheng du, dove l’italia era ospite d’onore della Fiera dell’Ovest, qualche imprenditore faceva notare che i problemi delle aziende italiane in loco sono ben altri, per esempio la difesa della proprietà intellettuale su cui non è stata proferita parola. «Il sottosegretario Geraci ipotizza dazi selettivi per difendere le nostre aziende esposte alla concorrenza sleale cinese, mi sembra molto velleitario», diceva il manager locale di un’importante azienda tricolore. «Queste battaglie andrebbero fatte a livello Europeo». A Bruxelles e nelle principali cancellerie comunitarie, Berlino in primis, il timore per la penetrazione cinese in aziende e infrastrutture chiave è molto cresciuto. Pochi giorni fa, di ritorno dalla Cina, il presidente francese Macron ha dichia
rato che la Via della Seta non può essere una strada a senso unico e la
Commissione ha appena lanciato un piano infrastrutturale alternativo.
Una firma dell’Italia sul memo
randum creerebbe non pochi mal di pancia.
«Proprio in Europa - ricorda Ivan Scalfarotto del Pd, che da sottosegretario dei governi Renzi e Gentiloni è stato dieci volte in Cina, avviando le trattative per il memorandum - siamo stati molto duri nei nostri “no”, battendoci perché a Pechino non fosse riconosciuto lo status di economia di mercato e per introdurre un filtro agli investimenti extra-Ue nell’Unione» (!!!!). Ma con l’Europa il governo gialloverde è ai ferri cortissimi, e l’awicinamento alla Cina è coerente con la strategia: «Sono sempre gli stessi Paesi del Nord che si lamentano de
gli investimenti cinesi», replica Geraci. «Non ho mai sentito la Grecia o il Portogallo lamentarsi».
Accostamenti poco rassicuranti, visto che Atene appare oggi prostrata di fronte a Pechino. Certo l’Italia ha ben altre dimensioni, ma le priorità poco chiare sulla Via della Seta non fanno ben sperare sulla capacità di estrarne il massimo vantaggio: «La firma del memorandum con la Cina è un’ottima notizia -conclude Amighini - ma senza aver prima definito cosa vogliamo fare rischia di dare poco in termini di progettualità e generare dei dissapori con altri partner». Un foglio bianco, su cui per ora solo la Cina sa cosa scrivere.


2) LA POLEMICA - INTERVISTA
“Attenti a una gara al ribasso con i cinesi”
Repubblica 8/10

PER IL PRESIDENTE DELL’AUTORITÀ VENEZIANA MUSOLINO IL NODO CHIAVE È LA RECIPROCITÀ, ALTRIMENTI SI RISCHIA UNA COLONIZZAZIONE: “DOBBIAMO AVERE UN PROGETTO CHE ABBIA L’OBIETTIVO DI ATTIVARE FLUSSI IN ENTRAMBE LE DIREZIONI. E IL VALORE AGGIUNTO DI UNO SCALO NON PUÒ LIMITARSI AL SOLO TRASPORTO

l' Italia non ha bisogno di chiedere l’elemosina alla Cina». Basta qualche secondo per capire che Pino Musolino è un passionario. E anche ora che il governo gialloverde è a un passo dal firmare con Pechino il memorandum di intesa sulla Via della Seta, il presidente del Porto di Venezia, 40 anni, continua a dire la sua con decisione. «Questo progetto cinese si dovrebbe approcciare con una visione di sistema e maggiore reciprocità. Il punto non è avere un molo in più dove le merci attraccano e partono verso la Germania, ma trattenere sul nostro territorio quanto più valore aggiunto possibile».
La Via della Seta non è un’opportunità per l’Italia?
«La Via della seta non basta enunciarla, va messa in pratica uscendo dalla visione stereotipata, patetica, che ne abbiamo in Italia. Questa non è una linea di tram, ma un progetto che risponde a precise esigenze cinesi, geopolitiche, di connettività e ancor più di assorbimento della capacità industriale interna, quindi di stabilità politica. Noi la approcciamo con la paura che se non firmiamo siamo fuori».
E invece?
«Invece bisognerebbe iniziare a capire che ci sono tante Vie della Seta, che questo progetto può creare dei flussi in entrambe le direzioni, a condizioni di maggiore reciprocità».
Lo ha detto anche il presidente francese Macron che “One Belt One Road” non può essere una strada a senso unico. Il nostro governo è troppo piegato agli interessi cinesi?
«Non è solo una critica al governo, ma un discorso di sistema Paese: Confindustria non ha una posizione, Confcommercio non c’è, l’Europa tace. Dal punto di vista dei porti per esempio ci sono diverse tipologie di prodotti su cui ragionare, mica solo i container, le cosiddette merci varie, i prodotti energetici su cui potremmo essere competitivi con il Nord Europa perché posizionati meglio. Non solo: il valore aggiunto non si riduce al trasporto, bisognerebbe tenere in Italia, attorno alle aree portuali, anche quello del la semilavorazione e dello smistamento. Di tutto questo neppure si è cominciato a parlare».
E intanto il Memorandum pare prossimo alla finna.
«Dai cinesi bisognava già presentarsi con una lista di cose desiderate, invece sui porti c’è troppo e poco, ogni scalo vuole un pezzo». 

Non è che lei frigge perché Trieste e Genova sono i due scali candidati a ricevere investimenti cinesi e invece Venezia è rimasta fuori?
«Non esistono solo i cinesi di Cosco, ci sono Msc o Maersk. E gli investimenti non li decidono mica i governi, si fanno sulla base delle convenienze logistiche. A Trieste i prodotti attraccano e poi vanno verso la Germania, Venezia ha alle spalle la regione produttiva più dinamica d’Italia. La metà dei container che arrivano a Trieste sono di passaggio, di questi la metà va a Venezia. Nessuno deve escludere l’altro, anche perché c’è complementarietà e sinergia tra i due scali, ma ci sono delle cose che Trieste non può fare, perché non ha il Nordest alle spalle».
A preoccupare i cinesi è proprio questa litigiosità tra municipi, in assenza di un piano complessivo. Trieste farà le sue infrastrutture, Genova le sue, ma poi bisogna andare oltre alla pura logica dell’infrastruttura e costruire una sintesi di sistema, anche in Europa. I cinesi investono dove c’è un ritorno, punto. Ma noi non siamo il Tajikistan, che ha bisogno dei soldi cinesi per costruire, diventando debitori e cedendo asset strategici. L’Italia non deve elemosinare». 

Vista la situazione dei conti pubblici e il costo delle promesse elettorali gialloverdi, il rischio di svendersi c’è? 
«Guardi a quello che è successo in Sri Lanka, dove un porto lungo la Via della Seta è finito in mani cinesi perché il governo non poteva ripagare i debiti: se non governi il Dragone, il dragone ti governa». 

3) IL CASO MODEFINANCE
L’ecosistema Trieste produce sviluppo «Nascere qui è stato fondamentale»
Due ingegneri, i primi passi come spin-oft dell’Università all’interno di Area Science Park,
l’elaborazione di un algoritmo applicato alla finanza Co ha preso vita una delle storie d’impresa più riuscite dell’ultimo decennio: ricavi raddoppiati anno su anno grazie al modello di rating «trasparente» per la valutazione del rischio di qualsiasi azienda
Corriere imprese 8/10/2018


E' una tra le storie d’impresa più riuscite degli ultimi dieci anni. ModeFinance, società che utilizza i big data per digitalizzare l’analisi del rating di qualsiasi società al mondo, è nata nel 2009 come spin-off dell’Università di Trieste e, da quel momento, è di base all’interno di Area Science Park, dove è cresciuta doppiando il volume dei ricavi anno su anno, arrivando a metà del 2018 a un giro d’affari di 1,5 milioni di euro e 25 dipendenti. Ma quello dei due fondatori, Valentino Pediroda e Mattia Cipran, entrambi ingegneri - il primo è un esperto di modelli numerici, il secondo di finanza - è un esempio a cui guardare soprattutto per la scelta di restare dove sono nati: in Italia, a Trieste. Il motivo è da ricercare anche in quell’ ecosistema di innovazione territoriale dal quale sono circondati e che, nel loro caso, si è rivelato essenziale per il passaggio dall’idea a start-up e per quello da start-up ad azienda. Oggi ModeFinance è la prima fintech a diventare agenzia di rating in Europa e prima agenzia italiana a poter esprimere rating sull’intero sistema bancario internazionale. «L’intuizione da cui siamo partiti ci è sembrata da subito rivoluzionaria - esordisce Valentino Pediroda, Ceo dell’azienda - portare flct nel mondo della finanza per costruire un nuovo modello di rating finanziario più trasparente, indipendente e aperto a tutti. Per farlo abbiamo studiato un algoritmo che, sostituendosi agli analisti che operano per le tradizionali agenzie di rating internazionali, permettesse di effettuare la valutazione del rischio di qualsiasi azienda in modo automatizzato».
Come funziona questo algoritmo?

«Si tratta di una tecnologia sviluppata in proprio e basata sull’utilizzo di big data, intelligenza artificiale e analytics che registra e simula il comportamento degli analisti finanziari nella valutazione di tutti i parametri necessari a definire il credit rating di un’azienda, ad esempio l’andamento sul mercato, i risultati finanziari o la composizione del consiglio di amministrazione. A oggi abbiamo analizzato il rating di 300 milioni di società e 6mila istituti di credito».
Da dove siete partiti per costituire la start up?
«Una volta sviluppato il software abbiamo cominciato a lavorare come consulenti, fino a che non abbiamo varcato la soglia di Innovation Factory, l’incubatore del parco scientifico e tecnologico di Trieste Area Science Park. Qui abbiamo cominciato un percorso di sviluppo serrato, sia sul prodotto, attraverso analisi, diagnosi e test del software, sia sugli aspetti imprenditoriali dell’idea, come lo studio del modello di business e l’analisi del mercato».
Quali sono stati i passaggi fondamentali per la crescita di ModeFinance?
«La premessa necessaria è che, per il tipo di business in cui operiamo, era essenziale per noi diventare al più presto un’azienda strutturata e dotata di una funzione di compliance, per poter ottenere la certificazione di agenzia di rating europea registrata da WEma, l’autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati, poi acquisita nel 2015. Siamo cresciuti evolvendo il modello di business con nuovi prodotti: nel 2012 abbiamo lanciato S-peek, un’app attraverso cui qualsiasi utente può conoscere in tempo reale la solidità finanziaria di un’impresa. Nel corso del 2017 l’applicazione è stata perfezionata e, poco tempo fa, è uscita s-peek Team, la versione collaborativa di s-peek, per la condivisione di analisi, report e commenti tra i membri di uno stesso ufficio».
Un’altra leva sono stati i fondi raccolti attraverso due round di investimento...«Sì, a credere in noi è stata la società di It padovana Conallis che, nel 2015, ha acquisto il 43% del nostro capitale, ma non è stata l’unica, un secondo round lo abbiamo ottenuto anche dalla Finanziaria regionale del Friuli Venezia Giulia,In totale abbiamo raccolto circa un milione di euro».
Quanto ha contato per l’azienda essere nata e cresciuta in uno dei distretti di ricerca e tecnologia più importanti in Italia?«È stato fondamentale. Basti pensare che Mattia e io ci siamo conosciuti all’università di Trieste, dove abbiamo cominciato avviando uno spin-off dell’ateneo. Per trovare la sede più adatta ci siamo spostati a cinque chilometri di distanza, in Area Science Park, il parco scientifico e tecnologico dove siamo tutt’ora incubati. La nostra prima dipendente è una ragazza di Istanbul che abbiamo intercettato appena uscita da un master alla Mib Trieste School of Management, altri sei chilometri dal parco tecnologico. Ne contiamo sette e arriviamo alla Sissa, da dove abbiamo reclutato quello che è oggi li nostro Cto. .
Tra i vostri obiettivi, però, c’è anche l’inter nazionalizzazione: non avete mai pensato che un trasferimento all’estero, vista anche la maggior disponibilità di capitali, possa aiutarvi a diventare competitvi più in fretta? «Arrivare all’estero ci interessa: stiamo guardando a quelle aree geografiche in cui c’è una più alta concentrazione di operatori finanziari e fondi di investimento, come gli Stati Uniti e il Middle East, ma anche alle capitali finanziarie come Londra e Singapore. Nel 2019 dovremmo aprire una seconda sede fuori dall’Italia ma il cervello pensante di ModeFinance resterà a Trieste: per ampliarci ci servono i talenti e questo ecosistema riesce a fornirli.