RESTITUIRE TRIESTE AL FUTURO -

AUTONOMI DALL' ITALIA MA CONNESSI CON IL MONDO - RESTITUIRE TRIESTE ALLA MITTELEUROPA - RESTITUIRE TRIESTE AL SUO FUTURO: CENTRALE IN EUROPA INVECE CHE PERIFERICA IN ITALIA -

sabato 17 settembre 2016

VERTICE EUROPEO: ITALIA ESCLUSA DAL DIRETTORIO E DALL' ASSE FRANCO TEDESCO - ALTRO CHE RETORICA DI VENTOTENE ! - LA VERITA' SULLA CONFERENZA STAMPA DI MERKEL E HOLLANDE - RENZI SNOBBATO, ITALIA CON L' EUROPA DEL SUD - TRIESTE IMPRIGIONATA SU UNA BARCA CHE VA A FONDO -



Renzi sta cercando di rimediare alla brutta figura facendo finta che ad andarsene sia stato lui, con la solita verve da sbruffone.
In realtà la Merkel e Hollande avevano organizzato da soli la conferenza stampa a due su contenuti concordati invitando Renzi a cose fatte solo per ratificare il tutto.
Lo dice la stessa Repubblica, giornale sempre tenero col PD: clicca QUI .

Ma anche il resto della stampa ne parla in questi termini: clicca QUI e anche QUI
Ed il Corriere lo conferma QUI: la conferenza stampa doveva fin dall' inizio essere a due (Merkel e Hollande) malgrado le aspettattive di Renzi dopo lo show di Ventotene.


L' Italia ormai fa parte degli stati reietti del Sud Europa: Grecia, Italia, Spagna, Cipro...

Adesso Renzi tenta di far passare tutto per un suo rifiuto e ribellione ai diktat tedeschi: in realtà spera solo di ricavarne un po' di popolarità in più per il referendum in arrivo.
Lo dice anche il Corriere della Sera nell' articolo di oggi "
Un messaggio al centro desta per salvare il suo referendum" clicca QUI.

Ma furbizie a parte, ormai è fatta: l' Italia è confinata nel Sud in crisi perpetua dell' Europa.
Niente di male se Trieste non fosse ancora imprigionata su questa barca che va a fondo.

Sotto alcuni brani dell' articolo di Repubblica:

La cancelliera e il presidente francese hanno preparato soli la conferenza stampa. Tardivo l’invito al partner italiano, che ha declinato"

"Se il briefing di Merkel e Hollande per Renzi può rappresentare uno smacco mediatico, il premier ribalta la prospettiva: "Non potevo fare una conferenza stampa con loro se non condivido le loro conclusioni su economia e migranti ". In effetti, spiegano diversi diplomatici, Angela e François avevano preparato il summit e la conferenza stampa a uso e consumo delle loro opinioni pubbliche e l'invito a Renzi ad unirsi a loro era arrivato a cose fatte. "



TEXAS INDIPENDENTE - INTERVISTA A D. MILLER PRESIDENTE DEL PRINCIPALE PARTITO INDIPENDENTISTA TEXANO - DA "LIMES" PER I NOSTRI LETTORI "


L'ultimo numero della prestigiosa rivista di geopolitica Limes è dedicato a una questione poco nota in Europa: la voglia di indipendenza del Texas, la 10° economia mondiale.
" Nell' unico Stato già indipendente degli USA si gioca la partita decisiva per l' identità americana: riusciranno i bianchi ad assimilare gli ispanici?"
Mentre sono noti l' indipendentismo scozzese, basco e catalano e anche quello del Quebec canadese poco si sa delle tendenze indipendentiste negli USA che promettono di ridisegnare la mappa del potere internazionale e del suo paese guida.
Anticipiamo, per i nostri lettori, l' intervista di Limes a Daniel Miller, presidente del T.N.M. il principale partito indipendentista texano che ha oltre 200.000 iscritti.
CLICCA QUI PER SCARICARE L' INTERVISTA COMPLETA


"LIMES Presidente Miller, perché il Texas dovrebbe tornare indipendente?
 MILLER Perché è una nazione e ogni nazione ha diritto a essere sovrana. Il Texas possiede una storia, una cultura, un popolo del tutto peculiari, che lo rendono unico nel panorama nordamericano e internazionale. Da quasi due secoli il nostro territorio è amministrato illegalmente da una potenza straniera, gli Stati Uniti d’America, che lo ha annesso senza coinvolgere direttamente i cittadini. Nel tempo Washington ha imposto il proprio regime tirannico, attraverso leggi e regolamenti che hanno ridotto le libertà personali e usurpato le risorse naturali. In base al principio dell’autodeterminazione dei popoli, anche la nazione texana ha diritto alla sua libertà, a vivere delle risorse del suo territorio e delle capacità dei suoi cittadini. In sintesi: pretendiamo di compiere il nostro percorso nel mondo. ...."

giovedì 15 settembre 2016

PORTO VECCHIO: DANNO I NUMERI ! RUSSO DICE 5 MILIARDI, E&Y 700 MILIONI: SE LA VERITA' STA NEL MEZZO SONO 2 MILIARDI E 850 MILIONI. CHI LI PAGHERA' ? - I TRIESTINI PREPARINO IL PORTAFOGLIO: INFRASTRUTTURAZIONE PRIMARIA E BONIFICHE SONO A CARICO DEL COMUNE...E CI VORRANNO SOLO 25 ANNI DI LAVORI ... PAGHINO E ASPETTINO ! - p.s. La No Tax Area non costerebbe niente e funzionerebbe subito.



Più volte il sen.Russo, autorevole e celebrato autore della legge sulla sdemanializzazione, ha parlato di 5 miliardi di investimenti privati in Porto Vecchio, anche a Ring (clicca QUI).

Il Consulente Ernst & Young ha invece indicato 700 milioni e solo 25 anni di lavori (!) (ma per un' area inferiore alla metà del totale e senza infrastrutturazione primaria) clicca QUI.

Facendo la media si ottengono 2 miliardi e 850 milioni ! Sarà questa la verità?

Esperti progettisti da noi consultati parlano di costi di infrastrutturazione primaria  (fogne, reti...) di almeno 350 milioni, che sarebbero a carico del Comune.
Il caso Greensisam, con la fuga del socio finanziatore svizzero, dimostra che i privati non sono disposti a pagare l' urbanizzazione primaria anche perchè aggiungere questi costi a quelli dovuti al vincolo architettonico fa uscire da ogni compatibilità economica.
Il Comune non ha questi soldi che dovrebbe eventualmente richiedere ai cittadini con nuove tasse perchè lo Stato, a sua volta, non li ha...


In ogni caso il Comune (cioè noi con le tasse) andrà incontro a pesanti spese anche di manutenzione e messa in sicurezza dell' area per un' operazione fuori mercato e senza investitori.

La No Tax Area invece non costerebbe niente e consentirebbe forti risparmi fiscali alle imprese...ma non ne parlano più.

Consigliamo il Sindaco di GIOCARE AL LOTTO I NUMERI FORNITI FINORA E QUELLI CHE ARRIVERANNO IN FUTURO: può essere utile per trovare i soldi.
Come legislatore il sen. Russo non vale un granchè, forse va meglio come fornitore di numeri del lotto.


PORTO VECCHIO: I 5 MILIARDI DI INVESTIMENTI INDICATI DAL SEN.RUSSO NON ESISTONO E NEMMENO GLI INVESTITORI PRIVATI - NON ESISTONO NEMMENO LE MASSE DI TURISTI NECESSARIE A SOSTENERE L' URBANIZZAZIONE - LA NO TAX AREA E' L' UNICO MODO PER FERMARE IL DEGRADO DI PORTO VECCHIO -



Consideriamo la situazione reale.

E' stato pubblicato oggi un piano di massima di Ernst e Young che prevede 700 milioni di spesa e 25 anni di lavori per 295.000 metri quadrati su 650.000 (meno della metà) e "al netto di costi di bonifica e/o opere pubbliche ulteriori la cui entità e i cui costi non risultano allo stato attuale prevedibili e al netto di qualsiasi fonte di finanziamento pubblico a copertura parziale di alcune voci di spesa».
E' esclusa da questo computo anche la parte di Greensisam che è la più pregiata, vicina al centro e molto grande e si apprende ufficialmente che il socio svizzero di Maneschi si è ritirato dall' "affare" lasciandolo senza finanziamenti.


Si apprende anche che l' emendamento Russo sulla "sdemanializzazione" ha avuto come effetto il blocco della COSTOSISSIMA infrastutturazione primaria (fogne, bonifica Chiave, ecc.) cui si era impegnata la APT per evidente conflitto di competenze col Comune cui è disposto il passaggio dell' area. 


Costosissima infrastrutturazione primaria che, come dice Greensisam, tocca ora al Comune fare (a spese dei triestini: almeno 350 milioni per tutta l' area).


Lo studio preliminare prevede per il 2018 "la realizzazione delle opere pubbliche propedeutiche. La macrofase 1 (inziale) si protrarrà dal 2018 al 2024 e dovrà creare condizioni di accessibilità adeguate e un tessuto urbano con destinazioni di pubblico utilizzo": CON CHE SOLDI ?
Sono a carico del Comune cioè dei triestini. CON CHE SOLDI ?


Ci sono poi continui balletti di cifre con il sen. Russo, l' autore della legge sulla sdemanializzazione, che ha parlato ripetutamente e recentemente di ben 5 miliardi per l' operazione (clicca QUI) mentre E&Y di 700 milioni anche se solo per una parte e senza infrastrutturazione primaria.
STANNO DANDO I NUMERI: chi racconta storielle? Se è l' autore della legge c'è da preoccuparsi seriamente sulla serietà di tutta la vicenda.


25 anni per arrivare alla fine della riqualificazione di meno della metà dell' area ad opera di grandi imprese: chi si aspettava rapidamente posti di lavoro per i triestini è servito !


Sono due anni che va avanti questa vicenda della "sdemanializzazione" e il comprensorio di Porto Vecchio è sempre più degradato...

Sono passati quasi due anni dal famoso "blitz" di Russo e non è successo NIENTE DI CONCRETO (come avevamo detto subito)...

Infatti tutto si basa su presupposti inesistenti:


I 5 MILIARDI DI INVESTIMENTI, DI CUI PARLA RIPETUTAMENTE (a vanvera?) IL SEN. RUSSO, PER L' URBANIZZAZIONE DI PORTO VECCHIO NON ESISTONO, e non esistono nemmeno i 700 milioni privati per meno della metà del comprensorio previsti da E&Y e nemmeno i soldi per l' area di Greensisamsono solo un miraggio perchè non è un investimento renumerativo come dimostra anche il fatto che Greensisam non ha nemmeno ritirato la concessione edilizia e tenta, senza successo, di vendere tutto a finanziatori che, ovviamente, si ritirano una volta esaminata la situazione reale.
E  secondo il precedente sindaco doveva essere la prima area a partire...
Anche la precedente "PortoCittà" si era ritirata in realtà per mancanza di finanziamenti.
Non ci sono investitori privati per queste cifre e per questa urbanizzazione, se è "pulita" e priva di speculazioni o riciclaggi: nè in Italia, nè all' estero e neanche in Dubai o altrove. 

Sono solo illazioni campate in aria.

Invece di ipotizzare, parlando genericamente di fantomatici "INVESTITORI", tirino fuori i nomi di questi fenomeni disposti a sborsare 5 miliardi, come dice Russo, per dare "un nuovo rione" ad una città di 200.000 abitanti in forte calo demografico con 20.000 abitazioni vuote ed a ridosso di confini sempre più problematici.

Un' area enorme rispetto alla città esistente ma priva di infrastrutture primarie (fogne ecc.) e gravata da un vincolo architettonico, giustamente definito idiota e che va tolto, che aumenta enormemente i costi di costruzione e limita pesantemente gli usi  a cui è possibile adibire edifici vetusti come i vecchi magazzini. 


IL TURISMO DI MASSA NECESSARIO PER SOSTENERE L'URBANIZZAZIONE DI PORTO VECCHIO NON ESISTE: è solo una chimera nella attuale situazione di crisi economica generalizzata, di minor disponibilità delle famiglie e in un' Europa che ha sempre più problemi di sicurezza, limita i grandi eventi e mette muri alle frontiere. 

Lo stesso "advisor" aveva parlato della necessità di continui "grandi eventi" di livello internazionale (con tutti i problemi economici e di sicurezza che si portano dietro) per sostenere tutta la baracca.
I "grandi eventi" sono ormai cronicamente in perdita e il bilancio dell' Expò di Milano ne è l' ennesima dimostrazione
Pensare di attirare masse di turisti, in queste condizioni, con un "Attrattore Culturale Transnazionale", cioè un Museo che accorpa quelli cittadini, è semplicemente ridicolo.
Basta vedere lo scarsissimo afflusso alla mostra sulle " Navi del Lloyd" che doveva essere il cuore del magnificato "Museo del Mare".


Il progetto velleitario di urbanizzazione in chiave turistica di Porto Vecchio è solo la coda tardiva di progetti  da anni '70/'80, quando i soldi pubblici abbondavano e l' economia era in crescita e quando progetti analoghi sono stati portati avanti altrove, ma in città grandi, fortemente affluenti e in sviluppo come Barcellona e Londra e sempre col determinante intervento pubblico.

Tempi che non tornano più: è un progetto fuori tempo, fuori luogo e fuori mercato. 

Una chimera su cui si sta paralizzando da anni quell' area e tutta la città.


Un progetto sbagliato e nato male, dopo numerosi aborti, che produrrà costi enormi per il Comune che sarà tenuto a mantenere, infrastrutturare e mettere in sicurezza l' area.


Invece una "No Tax Area" rende convenienti e rapidi gli insediamenti produttivi perchè allenta la morsa del fisco sulle imprese.

SE NON SI VUOLE CHE IL DEGRADO DI PORTO VECCHIO CONTINUI INESORABILE SI SEGUA LA STRADA DELLA "NO TAX AREA" NEL PUNTO FRANCO NORD.

Altrimenti si continuerà per decenni con alti costi per la comunità, anche con la costituzione di società (poltronifici politici) per la gestione di piccoli finanziamenti, piccoli "spezzatini" e Musei semideserti in una situazione di degrado crescente e carenza di fondi.



mercoledì 14 settembre 2016

NO TAX AREA: MILANO, BAGNOLI E I PORTI DI NAPOLI E SALERNO AVRANNO LA LORO, A TARANTO LA RICHIEDONO PER RICONVERTIRE LA FERRIERA ILVA ...CHE FINE HA FATTO QUELLA DI TRIESTE? PERCHE’ SINDACO E POLITICI NON FANNO NIENTE ? DA NOI IL MUSEO, ALTROVE LA “ZONA FRANCA” PER ATTIRARE INVESTIMENTI PRODUTTIVI E CREARE LAVORO E AMBIENTE SANO.

E di ieri la notizia che Renzi ha firmato con il sindaco di Milano un accordo da 2 miliardi di euro dove, tra l' altro, si prevede l' istituzione di una NO TAX AREA nel comprensorio dell' Expo'.
Infatti le No Tax Area sono gli strumenti più efficaci per il recupero e rivitalizzazione delle aree dismesse.
Per questo il governo ne ha annunciato  l' introduzione anche a Bagnoli (Napoli) dove c'è tutta l' area della ex-ferriera da recuperare ma anche nei porti di Napoli e Salerno (clicca QUI).
E per questo gli ambientalisti di Taranto la richiedono per riconvertire la ferriera dell' ILVA senza perdere posti di lavoro (clicca QUI).

Le Zone Franche in tempi di crisi, di carenza di fondi pubblici e di fisco esagerato si presentano come lo strumento più efficace e veloce per favorire insediamenti produttivi e creare posti di lavoro. 
Sono 3.000 in tutto il mondo, hanno grande espansione e danno lavoro a 66 milioni di persone.

Dopo la fiammata di luglio non si è più sentito parlare della No Tax Area o Free Zone di Trieste da localizzare anche in Porto Vecchio.

I politici nostrani non ne parlano e preferiscono discettare di una faraonica, costosissima e irrealizzabile urbanizzazione e privatizzazione di Porto Vecchio con finalità turistiche e abitative.

Eppure la No Tax Area in Porto Vecchio, unita ai vantaggi doganali del Punto Franco, sarebbe l' unica via rapida e poco costosa per rivitalizzare  la grande area e creare il lavoro di cui Trieste ha bisogno.


Sono due anni che va avanti questa storia della "sdemanializzazione" e il comprensorio è sempre più degradato...
Infatti si basa su presupposti inesistenti:


I 5 MILIARDI DI INVESTIMENTI DI CUI PARLA RUSSO PER L' URBANIZZAZIONE DI PORTO VECCHIO NON ESISTONO: sono solo un miraggio perchè non è un investimento renumerativo come dimostra anche il fatto che Greensisam concessionaria della parte più pregiata e vicina al centro non ha nemmeno ritirato la concessione edilizia e tenta, senza successo, di vendere.
Invece di ipotizzare parlando genericamente di "INVESTITORI" tirino fuori i nomi di questi fenomeni che cacciano 5 miliardi per dare "un nuovo rione" ad una città di 200.000 abitanti in forte calo demografico con 20.000 abitazioni vuote ed a ridosso di confini sempre più problematici.

IL TURISMO DI MASSA NECESSARIO PER SOSTENERE L'URBANIZZAZIONE DI PORTO VECCHIO NON ESISTE: è solo una chimera in una situazione di crisi economica generalizzata, di minor disponibilità delle famiglie e in un' Europa che ha sempre più problemi di sicurezza, limita i grandi eventi e mette muri alle frontiere.
Pensare di attirare masse di turisti, in queste condizioni, con un "Attrattore Culturale Transnazionale", cioè un Museo che accorpa quelli cittadini, è semplicemente ridicolo.


Il progetto velleitario di urbanizzazione di Porto Vecchio è solo la coda di progetti  da anni '70/80, quando i soldi pubblici abbondavano e l' economia era in sviluppo e quando progetti analoghi sono stati portati avanti altrove sempre col determinante intervento pubblico.
Tempi che non tornano più: è un progetto fuori tempo e fuori luogo.

Invece la No Tax Area rende convenienti e rapidi gli insediamenti produttivi perchè allenta la morsa del fisco sulle imprese.

SE NON SI VUOLE CHE IL DEGRADO DI PORTO VECCHIO CONTINUI INESORABILE SI SEGUA LA STRADA DELLA "NO TAX AREA" NEL PUNTO FRANCO NORD.

Altrimenti si continuerà per decenni con la costituzione di società (poltronifici politici) per la gestione di piccoli finanziamenti, piccoli "spezzatini" e Musei semideserti in una situazione di degrado crescente.
Sono passati quasi due anni dalla famosa "sdemanializzazione" e non è successo NIENTE DI CONCRETO (come avevamo detto subito)...

martedì 13 settembre 2016

NO TAX AREA A MILANO: FIRMATO OGGI L' ACCORDO - LA NO TAX AREA TRIESTINA ERA SOLO UNO SCHERZO ?! SPARITA DOPO SOLO DUE MESI ! I POLITICI NOSTRANI INVECE DI SOSTENERLA PARLANO D' ALTRO: MUSEI, SARDELLE E ABITAZIONI IN PUNTO FRANCO - PERCHE' I POLITICI VENEZIANI E MILANESI SOSTENGONO GLI INTERESSI DEL LORO TERRITORIO MENTRE I TRIESTINI PENSANO AD ALTRO?



"CHE FINE HA FATTO LA -NO TAX AREA- IN PORTO VECCHIO"?

Cari lettori,
Oggi a Milano è stato firmato l' accordo che prevede l' istituzione di una NO TAX AREA dove c' era l' Expo' (clicca QUI).

Per capire come stanno le cose a Trieste, dopo gli annunci di luglio, basta leggere con attenzione i due articoli di fondo sul Piccolo pubblicati a soli due mesi di distanza (vedi alla fine).

Siamo passati da "TUTTI UNITI PER UN UNICO OBIETTIVO: LA "FREE ZONE" IN PORTO VECCHIO" direttamente alla celebrazione dell' urbanizzazione con presunto utilizzo turistico e abitativo con al centro musei e parchi.

Un' area strategica portuale dotata di Punto Franco extradoganale privatizzata per trasformarla in residence con Musei, Parchi e Casinò...snobbata una No Tax Area possibile e necessaria: solo qui può succedere !

Dov' è finita la "No Tax Area" STRUMENTO DECISIVO per favorire insediamenti produttivi e finanziari e per creare rapidamente posti di lavoro di cui Trieste ha disperato bisogno ?

Come mai i politici nostrani fanno finta di niente e parlano di Musei, Casinò, Parchi e abitazioni ?
Bisogna ammettere che i politici veneziani come Costa e Brugnaro portano con forza e caparbiamente avanti gli interessi del loro territorio, totalmente contrapposti a quelli di Trieste come il porto off-shore di Venezia: tutt' altra tempra delle nostre mezze calzette attente a ogni stormir di fronda romana.

E bisogna riconoscere anche che il sindaco di Milano, Sala, si è attivato per primo per ottenere la No Tax Area per il comprensorio dell' ex-Expò lanciando l' idea già in campagna elettorale (clicca QUI) e andando immediatamente a Londra negli ambienti finanziari a cercare "clienti".

Qui sono andati a Muggia e Capodistria oltre ad omaggiare e porgere le terga al concorrente storico a Venezia. 

RIPROPORREMO IL TEMA DELLA NO TAX AREA FINO ALLA NAUSEA E FINCHE' NON CI SARANNO RISPOSTE.

Come faceva Catone che chiudeva ogni discorso con "Carthago delenda est" noi ripeteremo ossessivamente la domanda "CHE FINE HA FATTO LA -NO TAX AREA- IN PORTO VECCHIO" ?

VUOI VEDERE CHE LA FARANNO SOLO ALL' EXPO' DI  MILANO E A BAGNOLI (NA) (clicca QUI)?
____________________

Nota importante: gli attuali Punti Franchi del Porto Franco Internazionale di Trieste sono, da sempre, zone franche DOGANALI e NON FISCALI: ovvero le merci sono considerate all' estero ed esenti da tasse anche indirette, ma i redditi sono tassati come avviene a Livigno.
La No Tax Zone li completerebbe esentando da tassazione diretta in tutto o in parte anche i redditi che vi si formano.
____________________

METTETE A CONFRONTO I SEGUENTI ARTICOLI: STESSO GIORNALE, STESSA FIRMA, quella a cui viene delegata abitualmente l' esposizione della "linea".

Ecco l’ articolo del 10 luglio sul Piccolo:

Tutti uniti con un unico obiettivo: la “free zone” in Porto vecchio
di ROBERTO MORELLI
l momento è propizio: Trieste avrebbe tutte le carte in regola per farcela. Serracchiani ha già scritto al governo, ora serve un colpo d’ala

E se Brexit si rivelasse un’insospettabile opportunità per Trieste? Se fosse proprio il capoluogo giuliano ad avvantaggiarsi dalla fatale fuga da Londra dei gruppi internazionali che non possono permettersi di ritrovarsi sull’uscio d’Europa, con vincoli doganali, fiscali e normativi alla libera circolazione dei servizi? L’opportunità è tutt’altro che campata in aria. I settori sono ben identificati: le aziende dei servizi con raggio d’azione internazionale, dalla telefonia alle compagnie aeree all’economia digitale (Vodafone, Easyjet, persino le sedi europee di Google e Facebook). Gli spazi sono su un piatto d’argento: il Porto vecchio e le aree di destinazione dei punti franchi. La legittimazione di Trieste, per collocazione geografica e primazia di vocazione, è indiscutibile. Lo strumento giuridico ha un nome e una procedura: Zes, cioè Zona Economica Speciale. Se vogliamo perseguire un’autentica svolta per il futuro della città, è un obiettivo da porci fin d’ora e con una coesione senza riserve. La presidente della Regione Debora Serracchiani è stata tempestiva e lungimirante nello scrivere a Matteo Renzi - al quale non ha certo bisogno di scrivere - per promuovere Trieste come area defiscalizzata in grado di attrarre capitali internazionali. È il momento giusto per farlo. E il passo giusto per concretizzarlo è l’istituzione di una Zes, che molti perseguono in Italia ma nessuno ha ancora ottenuto, né in verità proposto nelle forme dovute. Al mondo esistono circa 2.700 free zone. Sono aree fiscalmente esenti o agevolate, normalmente con canoni, costi energetici e di utenze ridotti e importanti sgravi contributivi. Servono ad attrarre investimenti dall’estero. La gran parte di esse è in Cina, ma - contrariamente a quanto si creda - sono consentite anche dalla Ue, che ne ospita 70 in ben 20 Paesi, tra i quali la Francia, la Germania, la Spagna e la stessa Gran Bretagna (nonché la Slovenia a Capodistria e Maribor). Fra le poche a non averne è l’Italia, benché molte aspirazioni si siano levate: Gioia Tauro, Taranto, Napoli, Marghera. Ora è partita come un razzo la proposta più seria di tutte: quella del neo-sindaco di Milano Beppe Sala per costituire una Zes nell’area dell’Expo. A questa dobbiamo agganciarci con altrettanta serietà. Per farlo è necessaria una legge: il governo ha già fatto sapere che è allo studio, ventilando - oltre a Milano - l’area dismessa di Bagnoli. La norma statale dovrà disciplinare le regole generali e le attività ammesse, demandando poi alla Regione l’attuazione con la scelta delle aree interessate. Per la gestione, è previsto che la stessa Regione costituisca una società pubblica con possibile partecipazione dei privati. L’autorizzazione della Ue, che vieta la “concorrenza sleale” fiscale, non è scontata: viene concessa per aree periferiche o svantaggiate, o per situazioni specifiche in potenziali zone strategiche. Che è proprio la nostra condizione. Vi sono infatti cinque ragioni fondamentali per sostenere una free zone a Trieste: la sua collocazione geografica al centro della “macroregione alpina” che comprende sette Paesi europei; l’essere una zona riconosciuta di crisi industriale sistemica al confine di una Zes esistente (Capodistria appunto); il regime del punto franco, finalmente in procinto d’essere regolato, che rappresenta un caso unico in Europa; l’area del Porto vecchio di cui è stato finalmente avviato il recupero, e che potrebbe prestarsi a una parte dei potenziali insediamenti; il precedente della legge sulle aree di confine del 1991, che creava un centro off-shore extravalutario, poi abortito con la nascita della moneta unica, e di cui ora la Zes costituirebbe una versione riveduta e corretta. Sotto il profilo politico, non siamo mai stati così ben rappresentati su tutti i fronti: la presidente della Regione Serracchiani è il numero due del partito di governo; Ettore Rosato è il capogruppo alla Camera dello stesso Pd, come Massimiliano Fedriga lo è della Lega; il rieletto sindaco Dipiazza è diventato un’icona della riunificazione del centrodestra. La free zone sarebbe gradita persino agli indipendentisti e ai 229 protagonisti dello sciopero fiscale. Roba da non credere. Gli appelli alla coesione per un obiettivo comune suonano sempre ridicoli e naif nel nostro panorama politico. Ma mai come ora c’è bisogno di un colpo d’ala della classe dirigente triestina e regionale, se per una volta vuol dirsi tale.

Ecco invece l’ articolo del 12 settembre sul Piccolo:

Porto vecchio e il rischio spezzatino Il masterplan c’è, ora tiratelofuori
di ROBERTO MORELLI

Prima viene l’idea, poi il progetto, quindi le realizzazioni concrete. Se si procede al contrario, qualsiasi piano di recupero urbano rischia di generare un obbrobrio, o nella migliore delle ipotesi un’accozzaglia d’insediamenti senza filo conduttore. È quel che rischia di accadere al Porto vecchio di Trieste: un museo qui, un ente lì, magari domani un ente diverso se per quello previsto ieri non ci sono i finanziamenti, qualche ufficio laggiù, un cantiere navale visto che qualcuno l’ha chiesto. Il disegno d’assieme? Ignoto. La logica non è di ridisegnare un' area, bensì d'impiegare i finanziamenti di volta in volta disponibili (oggi 50 milioni, una goccia nell’oceano) così come si possono impiegare. Il risultato sarebbe un’arlecchinata priva di fascino, d’interesse, di capacità d’attrazione. Se vogliamo un buon esempio, c’è: l’ex Opp, diventato non si sa cosa (cos’è, chi ci va, se non chi ci lavora?) a forza di assegnazioni, progetti, scelte estemporanee prese di volta in volta sulla base dell’evenienza ma senza il coraggio di una visione d’insieme. Sarebbe diventato un magnifico campus universitario, è uno splendido luogo senza identità. Intendiamoci: non è un punto politico, né di bontà delle singole scelte. La giunta Cosolini aveva saggiamente nominato un advisor (Ernst&Young), ovvero un coordinatore generale del progetto, affidandogli tuttavia un mandato astruso e indefinito, e ipotizzando diversi insediamenti prima ancora che il masterplan venisse presentato. La giunta Dipiazza ha messo a bagnomaria l’advisor (che ha consegnato il suo lavoro, rimasto sconosciuto) e propone ora insediamenti diversi: un mercato del pesce, un Museo della città, probabilmente l’Immaginario scientifico dove prima si pensava all’Icgeb. Il disegno complessivo non c’era prima e non c’è ora, o quantomeno nessuno lo capisce. Non c’è nulla di male a pensare al Magazzino 26 come a un polo museale. È anzi un’ottima idea, poiché potrà raggruppare in un Museo della città (come anche Cosolini aveva in mente per Palazzo Carciotti) la miriade di sedi cittadine che staccano quando va bene quattro biglietti a giornata, disseminate da San Giusto alla zona ippodromo. Non c’è nulla di sbagliato, ed è anzi indispensabile, far conoscere il dossier a potenziali investitori internazionali e coinvolgere le città vicine come Lubiana e Venezia, ciò che sta facendo Dipiazza. Ma cosa mai ci metteremo vicino al museo e cosa scriveremo nel dossier, visto che non abbiamo ancora deciso che farne, di questi 60 ettari di pregio nel cuore della città? Anche le ottime idee possono diventare pessime, se scollegate fra loro e incapaci di restituire un’idea coesa a cittadini, turisti, imprenditori. Continuiamo a muoverci secondo la logica imperitura e distorta della mano pubblica: usare a spizzichi i finanziamenti che arrivano per fare qualcosa pur che sia, ma senza aver deciso cosa vogliamo diventi. Ovvero, mettere il carro davanti ai buoi. Uno spazio così incantevole in cima all’Adriatico si presta mirabilmente a esprimere, raccontare e modernizzare il rapporto tra la città e il mare,(e la No Tax Area? ndr) e ancor più la cultura dello scambio - il movimento di merci, persone e, oggi, conoscenza - che il mare rappresenta. Se è questa un’idea di fondo condivisibile, a essa va improntato il progetto generale, dandogli un disegno architettonico, di spazi e d’insediamenti coerente, dall’uso dei vecchi magazzini fino al marketing e finanche alla segnaletica interna. L’ultima cosa da fare è giocare a casaccio spazi, rattoppi ed esigenze momentanee, sistemando le iniziative così come capitano. Vogliamo guardare alla parte mezza piena del bicchiere. Sul recupero del Porto vecchio non si torna più indietro, ed è un merito condiviso tra Cosolini e Dipiazza (che già nel primo mandato trascinò il centrodestra da iniziali posizioni opposte) e reso possibile dal famoso blitz parlamentare di Francesco Russo. Ci sarà un altro tabù da sconfiggere, e sarà l’apertura all’edilizia residenziale, senza la quale nessun progetto imprenditoriale starà mai in piedi, come il sindaco ha osservato. Non gettiamo via il buono ch’è stato fatto. Si sveli ora (se c’è) o si completi un masterplan e si cominci in fretta a lavorare alle infrastrutture - acqua, luce, gas. Quando le idee sono chiare e il progetto è steso, tutto procede più veloce. E gli investitori arrivano, e una nuova Trieste può prendere forma.



lunedì 12 settembre 2016

SVEGLIA RUSSO! BASTA COL FANTATURISMO ! Secondo il senatore la competizione fra i porti di Trieste e Venezia è sulle crociere (non per il controllo del traffico merci nell' alto Adriatico come avviene da secoli)! Qualcuno gli spieghi che i turisti che vogliono andare a vedere Venezia e vengono sbarcati a Trieste, qui non spendono un cent: prendono subito il treno per Venezia !




Il sen Russo sproloquia: secondo lui la competizione fra i porti di Trieste e Venezia è sulle crociere (non per il controllo del traffico merci nell' Adriatico, come avviene da secoli)!

Qualcuno gli spieghi che i turisti che vogliono andare a vedere Venezia e vengono sbarcati a Trieste, da noi non spendono nemmeno per un caffè. 
Semplicemente sbarcano dalla nave per prendere il treno a poche decine di metri.

E quello che già sta succedendo con le navi da crociera che usano Trieste come porto di partenza e arrivo (Home Port): i turisti si imbarcano e sbarcano per tornare a casa in tutta fretta e qui non spendono niente.
Lo sanno tutti gli operatori turistici.

E poi gli armatori DEVONO mettere la tappa di Venezia altrimenti non vendono le crociere perchè quella è la tappa che tutti vogliono fare.

Pretendere che Venezia rinunci al traffico passeggeri a favore di Trieste è una evidente stupidaggine che non tiene conto nè del nuovo terminal passeggeri di Venezia inaugurato nel 2014 (clicca QUI), nè del nuovissimo terminal a Bocca di Lido che evita il passaggio vicino S.Marco (clicca QUI) e nemmeno delle difficoltà di attracco con la bora di questi "cassoni del mare".

Purtroppo i politici hanno ormai il cervello intossicato dalla fantasia del turismo come soluzione dei problemi di Trieste.
Una balla priva di qualsiasi base economica.


Trieste è un porto commerciale e terminal naturale delle rotte mercantili tra Oriente ed Europa e un po' di crociere sono solo un contorno.

Ragion per cui il grosso del traffico merci va a Trieste e il grosso del traffico turistico va a Venezia, come è naturale.

Ma questa evidente realtà non piace a lorsignori che si sono inventati la storiella che una città come Trieste può vivere di turismo mentre la stessa Venezia non ce la fa senza sovvenzioni statali pur avendo solo 50.000 abitanti (un quarto di Trieste)... 

I politici dei partiti italiani hanno abbandonato da anni ogni ipotesi di sviluppo produttivo di Trieste che vogliono trasformare in un museo.

E Venezia dovrebbe, secondo molti, pure fare il traffico merci per l' Europa perchè quello per la pianura Padana orientale è in forte calo causa crisi strutturale italiana.

Infine Russo, omettendo di dire qualcosa sulla No Tax area di cui si parlava a luglio (QUI), parla di 5 miliardi per l' urbanizzazione a fini turistici di Porto Vecchio, una somma spropositata che nessuno investirà mai come dice lui stesso riguardo l' Off-Shore veneziano in questo video.

Insomma sostiene che sono reperibili 5 miliardi per Porto Vecchio: la stessa cifra che per le Olimpiadi a Roma del 2024 (clicca QUI) che nessuno vuole accollarsi...Ma ci crede veramente? Fa molto caldo questo settembre...


NON SARA' L' IMMIGRAZIONE A RILANCIARE L' ITALIA - PER I NOSTRI LETTORI UN ARTICOLO DELLA RIVISTA "LIMES" SUL TEMA DELL' IMMIGRAZIONE



Quelli pubblicati in questa pagina sono stralci di un saggio apparso sull’ultimo numero (“Chi siamo?”) della rivista di geopolitica Limes, diretta da Lucio Caracciolo, disponibile ora nelle librerie (Clicca QUI).

Ci è parso interessante perchè sfata un mito, cioè quello del "rilancio economico" tramite immigrazione.
Un falso mito che si afferma tramite la pressione mediatica e che è simile, anche per infondatezza, a quello che Trieste, in forte declino economico e demografico, rinascerebbe grazie ai musei e all' allargamento della parte urbana nelle aree di Portovecchio, sottratte ad utilizzi produttivi in regime di fiscalità di vantaggio (No Tax Area).

In entrambi i casi prima si devono creare i posti di lavoro.

NON SARA' L' IMMIGRAZIONE A RILANCIARE L' ITALIA

Il nostro paese non riesce più a generare posti di lavoro adeguati alle aspettative dei suoi giovani. In queste condizioni, mentre esportiamo cervelli, l’immigrazione accresce soltanto la competizione tra poveri. Il rischio della reazione identitaria e il degrado della sicurezza.


Viene da tempo quasi ossessivamente ripetuto un mantra. L’Italia, si dice, sarebbe un paese in via di progressivo invecchiamento, nel quale un numero sempre più piccolo di persone in età lavorativa dovrà farsi carico di una quantità crescente di anziani in pensione e bisognosi di costose cure sanitarie. Per questo motivo, ogni anno dovremmo importare centinaia di migliaia di uomini e donne dal resto del mondo, possibilmente giovani e ben istruiti. Spetterebbe a queste masse di stranieri il gravoso compito di compensare il collasso demografico determinato dall’affermazione dei valori del femminismo nella nostra società, garantendo con il loro lavoro e i loro contributi la sostenibilità a lungo termine del nostro sistema di welfare. Senza cogliere l’implicito sottile pregiudizio razziale nei confronti di chi arriva, sembriamo desiderare una situazione in cui noi italiani, distrutto lo stato e affossata la famiglia, prendiamo atto del nostro declino e affidiamo ai nostri ospiti il compito di mantenerci al posto dei nostri figli, che abbiamo rinunciato a generare per vivere più comodamente e con meno vincoli.
L’argomentazione ha il suo fascino, specialmente quando è presentata con dovizia di dati e grafici relativi al presumibile andamento delle variabili più importanti per la sopravvivenza delle nostre società. Ma è molto meno solida di quanto appare, alimenta pericolose illusioni e comunque tende a trascurare alcuni elementi essenziali, invece, al calcolo di convenienza relativo al modello di futuro che vogliamo. Non siamo la Germania e meno che mai gli Stati Uniti, neanche sotto il profilo della capacità di accogliere immigrati e farne una risorsa per il progresso economico, sociale e tecnologico del nostro paese, malgrado per anni ci si sia baloccati con l’idea di attrarre con incentivi di dubbia efficacia moltitudini di stranieri qualificati, per i quali non esistono veri posti di lavoro, a meno di non voler considerare tali la possibilità di vendere rose ai turisti o quella di lavare i vetri alle macchine. E’ bene essere consapevoli che la realtà è drammaticamente diversa da come alcuni se la immaginano: non solo non riusciamo a importare cervelli dall’estero, ma stiamo perdendo una significativa quantità dei nostri giovani più istruiti, che hanno ripreso a emigrare. Nel solo 2014 se ne sono andati in 101.297, molti con la laurea in tasca. E rischiamo di innescare un nuovo conflitto sociale.

Il primo punto fondamentale contro il quale si scontra la teoria dell’immigrazione come necessità economica imposta dalla difficoltà di sostenere il nostro welfare è in effetti proprio l’incapacità dimostrata dal nostro sistema produttivo di generare opportunità lavorative adeguate quantitativamente e qualitativamente a soddisfare le aspettative di chi vorrebbe trovare un’occupazione. I dati parlano chiaro: non solo conviviamo da tempo con una disoccupazione elevata, superiore al 10 per cento, con picchi tra i più giovani che localmente raggiungono anche il 40 per cento, ma la difficoltà di trovare un impiego accettabile è tale che l’Italia si distingue in negativo dai suoi partner europei anche per il basso tasso di attività della sua popolazione. Siamo diversi punti sotto la media europea, intorno al 60 per cento contro il 68 per cento, e la percentuale tende a calare ulteriormente. Espelliamo facilmente dal mercato del lavoro le donne che hanno optato in extremis per la maternità. E prepensioniamo allegramente gente ogni qualvolta ci sia da agevolare una riconversione produttiva o sia necessario tagliare posti di lavoro, tanto nel settore pubblico quanto in quello privato.

Nell’Europa centro-settentrionale la situazione è stata a lungo differente: per decenni le principali potenze industriali del continente hanno infatti sistematicamente generato occupazione eccedente le potenzialità demografiche interne, anche a causa dei “buchi” aperti nelle rispettive società dai massacri verificatisi nella Seconda guerra mondiale. Le donne non sono rimaste escluse dai processi produttivi nella misura che si continua a osservare da noi. E si è ovviato alle carenze di manodopera anche negoziando da governo a governo l’arrivo dei lavoratori stranieri necessari a far funzionare a pieno regime miniere e fabbriche. Persino la Repubblica democratica tedesca, cioè la Germania comunista di Ulbricht, dovette risolversi a importare lavoratori dal Vietnam. In Italia, non è mai accaduto nulla di tutto questo.

Proprio il persistente gap tra i tassi di attività precedentemente menzionato riflette bene la differenza dei contesti. Non è un caso che gli stessi migranti che sbarcano sulle nostre coste cerchino in gran numero di raggiungere al più presto una frontiera per proseguire il viaggio e arrivare dove le probabilità di successo e inserimento sono maggiori. E quale sia la situazione lo sanno bene anche i nostri giovani, che a frotte stanno lasciando l’Italia proprio attratti dagli allettanti posti di lavoro che si trovano in Germania, in Gran Bretagna o persino in Belgio, paese piccolo che però ospita le istituzioni europee e tutto il vasto mondo di lobby, fondazioni politiche, centri di ricerca e think tank che ruota loro attorno.

Non possiamo facilmente fare dei migranti una risorsa, in sintesi, perché il sistema produttivo e la stessa Pubblica amministrazione del nostro paese si stanno contraendo. Inoltre, prive come sono di adeguata tutela sindacale, le prestazioni lavorative terziarizzate che si stanno espandendo tendono a remunerare redditi sempre più bassi e incostanti, annichilendo le speranze di promozione sociale ed economica di un ceto medio all’interno del quale è diventato indispensabile svolgere più attività per poter sbarcare il lunario. Nasce da questo fenomeno la rivolta antipolitica che stiamo osservando e quella meno visibile, ma non per questo meno acuta, del capitale umano che stiamo gettando al vento: i laureati che abbiamo formato e che sono costretti a cercare occupazione altrove. La crisi che si è abbattuta sul nostro paese dopo il 2008 e specialmente dopo il 2011 ha solo accelerato il processo, comportando attraverso l’austerità il taglio delle risorse devolute alla ricerca, bloccando il ricambio nel settore pubblico e cancellando letteralmente centinaia di migliaia di opportunità non solo lavorative, ma di carriera. I posti di lavoro eliminati nel solo ambito statale, lo ricordava nel 2014 Giulio Tremonti, equivalgono di fatto alla popolazione attiva di una città come Firenze.

Dovremmo importare imprenditori, forse, cioè persone che non solo vengano a lavorare da noi, ma lo facciano creando occupazione nuova e non meramente sostitutiva. Trasformare un boat people in proprietario d’azienda è però un processo lunghissimo, specialmente in un paese come il nostro, nel quale il credito all’impresa è asfittico, il capitalismo è relazionale, cioè basato sulle reti di amicizie, e prima di poter costruire qualcosa occorre accumulare una bella quantità di denaro. Ciò nonostante, qualcuno ci riesce lo stesso, specialmente nel campo della ristorazione. I cinesi sono un’interessante storia di successo, ma non sono di certo arrivati da noi sui barconi e si sono valsi del supporto di potenti organizzazioni occulte.

Le nostre strade si stanno peraltro riempiendo anche di esercizi più modesti, come le rosticcerie etniche gestite da arabi e turchi che stanno piacevolmente diversificando le nostre diete o i minimarket dei bengalesi, aperti fino a notte fonda, che talvolta integrano le loro entrate offrendo anche un riparo notturno ad altri migranti. Più spesso, però, gli immigrati finiscono per entrare in competizione con i nostri concittadini riguardo ai lavori più pesanti e meno qualificati, quando non finiscono nelle mani della criminalità che li sfrutta come manovalanza. Si vedono tanti stranieri nei cantieri edili, ad esempio, spesso alla mercé di caporali che li reclutano alla giornata in luoghi convenuti delle nostre città. Se ne trovano tanti anche nei McDonald’s, specialmente in quelli del Nord. Purtroppo, se ne incontrano proporzionalmente ancora di più nelle nostre carceri, dove i detenuti immigrati rappresentano ormai circa il 30 per cento del totale: 18.166 su 54.072 complessivi nello scorso giugno, stando ai dati ufficiali pubblicati dal ministero della Giustizia.

E’ difficile non rendersi conto di come circostanze del genere possano contribuire all’innesco di frizioni sociali, se non addirittura di vere e proprie reazioni xenofobe da parte di chi si sente minacciato dalla nuova concorrenza o teme per la propria sicurezza e non comprende per quali ragioni lo stato spenda risorse per l’accoglienza, quando tanti italiani stanno male ed esistono più di quattro milioni di nostri concittadini in condizioni di povertà assolute. Le motivazioni per sovvenzionare il soggiorno dei migranti irregolari che invocano la concessione di una qualche forma di tutela internazionale ci sono e non sono solo esclusivamente umanitarie: uno straniero giunto per mare che venga efficacemente assistito ha, ad esempio, minor necessità di delinquere, anche se alcune situazioni di difficoltà, come la solitudine e le frustrazioni derivanti dallo sradicamento, possono sempre indurlo a cercare scorciatoie nell’illegalità.

L’area di sofferenza tra i nostri concittadini si è comunque talmente allargata che spesso dialogare su questi argomenti si rivela del tutto inutile. Il disagio emerge nei luoghi più impensati. I medici che lavorano al pronto soccorso dei nostri ospedali spesso fronteggiano situazioni imbarazzanti: debbono erogare prestazioni sanitarie agli immigrati privi di documenti di fronte a italiani spesso indigenti, ma incapaci di provarlo, che chiedono perché invece loro siano tenuti al pagamento del ticket. E qui si tocca un’altra nota dolente. In tempi di rigore fiscale e finanziario, l’uomo della strada capisce ma non accetta il fatto che l’accoglienza dei migranti implichi dei costi che sottraggono risorse altrimenti allocabili ai servizi di cui potrebbe beneficiare più facilmente o più a buon mercato. Le spese per l’integrazione finiscono quindi immediatamente nel mirino di chi cerchi facili consensi.

La coperta del bilancio statale è infatti sempre troppo corta, almeno da quando siamo in regime di moneta unica, costretti a finanziare deficit pubblico e debito sovrano attingendo direttamente ai mercati, mentre il surplus commerciale tedesco drena risorse dalla nostra economia, impoverendoci giorno dopo giorno. E intanto la Germania accumula montagne di denaro da destinare agli impieghi più vari, inclusa l’importazione di talenti in fuga dalle zone di guerra. Si tagliano i posti letto negli ospedali, la manutenzione delle scuole è rimessa a chi ne fruisce, ma ai migranti richiedenti tutela internazionale si regalano sim cards e si offre quando possibile ricovero negli alberghi, anche in località turistiche di pregio. Il collegamento è presto fatto anche dai neogenitori più o meno giovani, che scoprono di essere svantaggiati nelle graduatorie per l’accesso agli asili-nido rispetto alle coppie che abbiano almeno un componente straniero. In tempi di vacche grasse, forse la circostanza passerebbe inosservata. Ma questi sono anni di crisi e ristrettezze, contraddistinti da sensibilità e risentimenti esagerati, che costituiscono ormai un target elettorale irresistibile persino per il Movimento 5 stelle, pure a lungo paladino dell’abolizione del reato di immigrazione clandestina, ma oggi interessato a dilatare il suo spazio politico occupando parte dell’area di centrodestra.

Tutti ricorderanno come, durante la recente campagna elettorale per le amministrative della scorsa primavera, il vicepresidente pentastellato della Camera dei deputati, Luigi Di Maio, lo dicesse a chiare lettere: “Gli italiani vengono prima”. A questo quadro assai sconfortante si sottrae forse soltanto il settore dei care-givers, i badanti, divenuto strategico per il funzionamento della vita ordinaria nel nostro paese. La ragione del loro successo è semplicissima: la famiglia italiana non è più quella di mezzo secolo fa e ormai c’è un’intera generazione di ottuagenari che ha lasciato pochi figli e deve ricorrere alla collaborazione degli stranieri. Per molti quarantenni e cinquantenni italiani alle prese con l’invalidità di uno o entrambi i genitori, infatti, l’intervento di un badante è adesso inevitabile, insieme al notevole sacrificio economico che ne deriva.

Assumere un collaboratore domestico implica in effetti un sensibile calo del reddito disponibile, la contrazione delle spese di consumo e quindi l’abbassamento del tenore di vita, mentre le retribuzioni vengono in massima parte sottratte al prodotto interno lordo, in quanto inviate come rimessa ai rispettivi paesi d’origine. Neanche in questo caso, quindi, gli immigrati appaiono come una risorsa per il nostro sviluppo economico futuro, anche se suppliscono egregiamente a una carenza delle istituzioni pubbliche, che non riescono a prendersi cura degli anziani in una nazione che invecchia. Rimane sullo sfondo l’amara constatazione che fare qualche figlio in più e avere un’efficace politica di sostegno alla famiglia probabilmente non guasterebbe. Ma in tempi di teoria gender imperante non è politically correct, mentre giustificare la politica delle porte aperte lo è sempre.
Nel settore dell’assistenza domestica operano con un certo successo le donne dell’est Europa, specialmente ucraine, romene e moldave, che sono state tra le grandi beneficiarie delle maxisanatorie del passato.

Ma sono i filippini, oltre 113 mila in Italia, quelli che paiono ispirare maggiore fiducia agli italiani, forse perché sostenuti dalla Chiesa cattolica, ben referenziati e dotati anche loro di una comunità molto organizzata, che dispone persino di un proprio misterioso servizio di protezione. Sono spesso in possesso di diplomi e padroneggiano a meraviglia la lingua inglese. Alcuni, specialmente i più giovani tra loro, vorrebbero peraltro crescere professionalmente e con il tempo spostarsi verso impieghi più remunerativi e appaganti all’interno della nostra società. Ma si scontrano inesorabilmente con le stesse difficoltà di accesso al mondo del lavoro che incontrano i coetanei italiani. E rimangono al palo, spesso accarezzando anche loro l’idea di andarsene prima o poi da qui.

Una questione più profonda riguarda poi le aspettative di chi arriva: uomini e donne che noi vediamo essenzialmente come nostri dipendenti e delle cui preoccupazioni e aspirazioni poco sappiamo e ancor meno ci importa. Si tratta invece di persone da rispettare, che portano presso di noi le proprie convinzioni e culture, per le quali vorrebbero ottenere cittadinanza, ponendo la società italiana di fronte alla sfida di un pluralismo più complesso di quello costruito faticosamente finora. Perché non si tratta più soltanto di far coesistere in un unico paese uomini e donne che avvertono ancora le diversità dovute ai propri contesti locali d’origine, ma anche di adattarsi alla convivenza con usi, credenze e costumi molto diversi da quelli prevalenti in Italia. Un esempio valga per tutti: un lavoratore musulmano non sarà mai in quanto tale né meno né più produttivo di uno che osservi i precetti religiosi di un’altra confessione, ma durante il mese sacro del Ramadan non potrà lavorare seguendo gli stessi ritmi e orari degli altri e se ne dovrà tenere conto. Anche le diete delle mense aziendali dovranno essere riconfigurate per permettere una più ampia libertà di scelta ed evitare involontarie quanto inutili provocazioni.

L’arrivo nel nostro paese degli stranieri implica quindi necessariamente una doppia risocializzazione: che faccia conoscere noi a loro e loro a noi. Un prezzo spesso trascurato dalle analisi dei costi e benefici recati dall’immigrazione, forse perché automaticamente scaricato sulle spalle dello stato, come se poi non fossero le tasse dei contribuenti, in ultima analisi, a finanziarne le spese. E’ questo l’aspetto più delicato di tutto il processo di integrazione, come provano i numerosi fallimenti riportati dai paesi che prima di noi vi si sono misurati e si trovano oggi alle prese con imprevisti problemi di ordine pubblico, come quelli emersi in Svezia e in Germania, o di sicurezza nazionale, come ci ha ricordato la strage di Nizza.

Ci sono argini, rappresentati dalle conquiste civili dell’ultimo secolo, che non dovranno essere valicati, pena lo snaturamento delle nostre società, anche se qualche nostro ospite potrà vivere questa circostanza come un’inaccettabile imposizione, covando risentimenti più o meno pronunciati, che sono la premessa della reazione identitaria e talvolta anche del terrorismo. La conclusione da trarre pare chiara: le persone non sono merci, l’integrazione non è uno scherzo, gli equilibri sociali sono fragili e risentono criticamente dei numeri e della maggiore o minore rapidità delle loro variazioni. E sarà necessaria una grande prudenza. Il melting pot non è infatti il principio organizzatore intorno al quale si sono costituiti gli stati europei. E’ piuttosto vero il contrario, avendo estesamente operato in Europa una logica opposta di autoaffermazione nazionale e pulizia etno-confessionale, che gli Stati Uniti hanno applicato solo ai danni dei pellerossa.

Ecco perché non possiamo pensare realisticamente di ricostruire il processo di sviluppo del nostro paese scommettendo sull’immigrazione, fermo restando che esisteranno sempre circostanze in cui non si potrà fare a meno di soccorrere chi scappa da guerre e persecuzioni. Occorrerà in qualche modo rallentare il flusso degli arrivi. Una cosa è il sentimento umanitario, infatti, altro è credere seriamente che i boat people siano la nostra salvezza. Le cifre fatte più volte negli ultimi anni a proposito del nostro ipotetico fabbisogno di manodopera estera non sono compatibili né con la sopravvivenza della nostra fabbrica sociale né con il sogno egoista di far pagare ai “nuovi italiani” la nostra sanità e le nostre pensioni.

Germano Dottori è cultore di Studi strategici alla Luiss Guido Carli di Roma e consigliere redazionale della rivista Limes.