Genova - È certo di aver costruito una diga più solida di quella dello Yangtze e di poter così imbrigliare l’onda cinese che sulla spinta della Via della Seta, sta arrivando adesso sulle sue coste. Zeno D’Agostino guida il porto di Trieste, il prescelto da Pechino per l’ingresso in Europa, ma è anche nella cabina di regia di Assoporti, l’associazione degli scali italiani, sempre combattuti tra l’euforia di nuovi salvifici investimenti e il terrore di diventare vittime del risiko cinese.
«Ho costruito un sistema che è in grado di dire no anche a Pechino, ma il vero pericolo non arriva dall’Asia». Più degli eredi di Mao, D’Agostino teme Alibaba e Amazon.
In molti nei porti italiani si chiedono se convenga accogliere gli investimenti cinesi. Trieste è al centro dell’interesse...
«Se qualcuno pensa di venire qui a farsi gli affari propri, e non penso soltanto ai cinesi, sappia che deve fare i conti con noi: perché l’Authority ha il pieno controllo dei punti vitali del porto».
Ritiene di aver blindato lo scalo a sufficienza?
«Certo. E con gli strumenti a disposizione. Il sistema logistico portuale è governato dall’Authority, e se Cina, Austria e Ungheria - questi due ultimi Paesi non li nomino a caso - volesse investire da noi, ben venga. Abbiamo preparato un’ottima cornice».
Ma dall’altra parte del tavolo ci sono colossi statali...
«Sono i privati a trattare in prima linea e hanno una concessione rilasciata da un’Authority pubblica. Molti ora cercano di capire se e come gestirli insieme a società cinesi, ma, ripeto, non c’è solo Pechino. Anzi: i cinesi in alcuni casi sono addirittura nelle retrovie rispetto agli altri…non è così chiara e definitiva la situazione».
C’è interesse solo per le banchine?
«Ai cinesi e agli altri potenti armatori che hanno chiesto di investire nelle nostre società che controllano interporti e punti franchi, abbiamo detto chiaramente che quelle realtà sono intoccabili perché per noi devono avere una partecipazione esclusivamente pubblica. I cinesi poi sono statali in Asia, ma qui a casa nostra vanno considerati imprese private».
Appunto: non ha paura di questa ambiguità?
«No, perchè abbiamo anticipato le mosse del mercato. Per questo mi fanno poca paura, e lo dico sinceramente, tutti i processi di aggregazione, quelli tra armatori e tra terminalisti. Però nessuno ha ancora ragionato su un altro aspetto: tra pochissimo, forse addirittura prima di 5 anni, saranno i signori del commercio elettronico a comprarsi il mondo dello shipping».
Le possibilità economiche ci sono tutte...
«È ancora fantascienza, ma non per molto: le navi arriveranno in rada e non scaricheranno più in banchina, ma con i droni la merce arriverà direttamente ai terminal logistici all’interno, saltando i nostri porti. Lo dicono diversi analisti».
Un po’ ardito come futuro.. .
«È fantascienza? Forse, ma noi adesso abbiamo deciso di occuparci di questo. Dovremmo stare molto attenti...»
La forza di Amazon sugli investimenti è notevole...
«Appunto, potrebbe realizzare questo sistema quando vuole…Così come Alibaba. Pensi che Cccc (il colosso delle costruzioni cinese, ndr) e Alibaba hanno vinto una gara ad Amburgo per un nuovo terminal container. Sono interlocutori che scardinano quelli tradizionali con cui siamo abituati a trattare. E quando arriveranno saranno un problema per tutti».
Quando termina il mandato in Assoporti?
«Tra poco. Abbiamo un nuovo ruolo importante in Europa con Espo e ragioneremo quindi su un probabile passaggio di consegne anche prima della mia scadenza di aprile».
Ecco l' intervista al prof. Yu Xuefeng:
Huawei e via della Seta, la Cina
cerca cooperazione, non egemonia. Parla Yu Xuefen
L’arresto in Canada di Meng Wenzhou, direttrice finanziaria del colosso hi-tech cinese Huawei che ora rischia l’estradizione negli Stati Uniti con l’accusa di aver messo in piedi un sistema per circumnavigare le sanzioni contro l’Iran, costituisce l’apice di un’escalation fra Washington e Pechino che vede le due potenze contrapposte su più fronti: dal confronto militare nel Mar Cinese Meridionale alla guerra dei dazi passando per la battaglia nello spazio cibernetico.
Nell’accademia americana e di molti altri Stati occidentali si fa spazio fra i politologi la tesi di una riedizione della Guerra Fredda in cui la Cina costituirebbe lo sfidante per eccezione dell’egemonia statunitense e del mondo occidentale. Una tesi rifiutata a priori dagli accademici cinesi, che invece presentano la crescita del Dragone sullo scenario globale, ben rappresentata dalla nuova Via della Seta inaugurata dal presidente Xi Jinping, come un’occasione per il resto del mondo e accusano gli Stati Uniti di cercare lo scontro frontale.
È di questo avviso Yu Xuefeng, professore di politica internazionale all’Università degli Studi Internazionali di Pechino, in questi giorni a Roma per commemorare alla Farnesina i cinquant’anni di Pietro Nenni, ministro degli Esteri, ospite dell’omonima fondazione. “L’arresto di Meng ha spiazzato l’opinione pubblica”, spiega intervistato da Formiche.net, “gli Stati Uniti pensano di poter far valere le loro leggi come diritto internazionale”.
Professore come è stato accolto in Cina l’arresto di Meng Wenzhou?
L’opinione pubblica cinese è molto arrabbiata di questa azione che gli Stati Uniti hanno preso nei confronti di una persona individuale cinese. Arrestare così, senza nessuna giustificazione, la figlia del titolare di una società cinese competitor di aziende americane dimostra che gli Stati Uniti credono di poter far valere le loro leggi interne come leggi internazionali.
Ci spieghi meglio.
Gli Stati Uniti parlano sempre di democrazia e diritti umani, ma non sempre li rispettano. Non si può arrestare una persona solo perché è sospetta. L’arresto di Wenzhou ha lasciato spiazzato il popolo cinese, ma non è il primo caso.
L’allarme Huawei però è stato lanciato dall’intelligence di tanti altri Paesi. Regno Unito, Australia, Nuova Zelanda, perfino Italia. Sono tutte congetture?
Non credo siano accuse sostanziate dalla realtà. Nella sua storia la Cina non ha mai invaso la sovranità di altri Paesi né ha cercato l’egemonia globale. Il mondo pensa che la Cina stia divenendo una minaccia, ma il popolo cinese fatica a capire questa preoccupazione, perché queste ambizioni non fanno parte della nostra storia.
Come spiega la diffusa percezione di un progetto egemonico sotteso alla crescita economica del Dragone?
La straordinaria crescita e la stabilità dell’economia cinese non può preoccupare il mondo, dovrebbe bensì essere un fattore positivo per contribuire alla stabilità del mondo. Senza crescita economica come può la Cina mantenere un miliardo e quattrocento milioni di abitanti?
Rifiuta dunque a priori la tesi di uno scontro economico e militare in atto fra Cina e Stati Uniti?
Non c’è nessuno “scontro di civiltà”. Gli Stati Uniti sono la prima potenza globale da tanti anni e hanno questa auto-percezione di sé. Comprendiamo in parte le preoccupazioni degli americani di fronte alla crescita della Cina sullo scenario globale. Quel che non capiamo è perché gli Stati Uniti guardino ai competitor nell’ottica dello scontro e della possibile “sconfitta”.
Alcuni studiosi americani hanno coniato l’espressione “sharp power” (potere affilato, ndr) per descrivere la sfida della Cina all’egemonia dell’Occidente.
Questa è una narrazione ideologica. La Cina è cresciuta molto in questi anni e ora sente il dovere, la responsabilità storica di costruire un mondo migliore e più armonioso, di aiutare gli altri con gli strumenti di cui dispone. È un concetto molto caro al presidente Xi Jinping.
Oggetto di crescente preoccupazione è la nuova Via della Seta inaugurata da Xi, il mastodontico progetto infrastrutturale che unirà via terra e via mare l’Asia all’Europa passando per l’Africa. Diversi Stati hanno denunciato le finalità politiche di questo piano.
La Cina ha proposto questa iniziativa per trovare una soluzione efficace ai problemi che sta affrontando a livello globale. Siamo divenuti la seconda economia del mondo, dobbiamo assumerci maggiori responsabilità. La via della Seta è la misura concreta per farlo, non un progetto egemonico.
Un caso che riguarda da vicino l’Italia è quello degli investimenti cinesi nei porti del Mediterraneo. Il porto di Trieste costituisce il terminale ideale per la via della Seta, ma in molti segnalano il rischio di una leva politica in mano alle compagnie cinesi che investono nelle infrastrutture europee.
L’obiettivo del governo cinese è sempre quello della doppia vincita. Gli investimenti della Belt and Road Initiative non sono un gioco a somma zero, tutti devono trarne beneficio. Nessuno è così ingenuo da cercare appositamente lo scontro. La Cina ha già tanti problemi interni da risolvere, a cominciare da una grande crisi demografica, non ha bisogno di ricattare altri Stati attraverso gli investimenti nelle loro infrastrutture.
Infine l' articolo di Maresca per PortNews di Genova:
Immobilismo poco strategico
La Via della Seta? Il vuoto oltre le parole