RESTITUIRE TRIESTE AL FUTURO -

AUTONOMI DALL' ITALIA MA CONNESSI CON IL MONDO - RESTITUIRE TRIESTE ALLA MITTELEUROPA - RESTITUIRE TRIESTE AL SUO FUTURO: CENTRALE IN EUROPA INVECE CHE PERIFERICA IN ITALIA -

sabato 6 gennaio 2018

VIVANTE, STORICO E GIORNALISTA TRIESTINO CHE NEL 1914 PROFETIZZAVA LA DECADENZA DI TRISTE STACCATA DAL SUO HINTERLAND IMPERIAL-REGIO - "Trieste non può far parte del Regno d’Italia in quanto è pluretnica" - Come Pittoni, fondatore delle nostre Cooperative Operaie ora assassinate, fu preso dallo sconforto per l' Inutile Strage - BASTA CELEBRAZIONI DELLA "GRANDE GUERRA" !


Un interessante articolo sullo storico e giornalista triestino Angelo Vivante è stato pubblicato oggi sul Piccolo a firma di Pierluigi Sabatti, presidente del Circolo della Stampa di Trieste e tra i promotori dell' intitolazione a Maria Teresa del Canal Grande.
Angelo Vivante, al pari di Valentino Pittoni fondatore delle nostre Cooperative Operaie, si rese conto della decadenza cui Trieste sarebbe andata in contro se staccata con la violenza della guerra dal suo entroterra Mitteleuropeo.
L' angoscia che prese gli uomini più consapevoli di fronte al precipitare degli eventi bellici lo spinse al suicidio, mentre Pittoni scelse l' esilio a Vienna dove morì amareggiato.

Nel 2018, centenario della presunta "vittoria" italiana, è prevedibile una recrudesecenza delle celebrazioni dissennate e antieuropee di quel grande inutile massacro che preparava il fascismo e la seconda guerra mondiale.
E' dal 2014 che a Trieste si susseguono fanfare e roboanti discorsi celebrativi e non se ne può più.

Ci sia silenzio: se non altro per rispetto ai morti.

Ecco l' articolo pubblicato il 6 gennaio:

Il marxista Vivante che sognava un’Europa plurale

di Pierluigi Sabatti

«Sulle questioni vive delle nostre terre irredente l’Irredentismo adriatico è per ora il libro storicamente più sano e più luminoso. Ce ne sarà sempre bisogno. Si ricorrerà ancora a lui».
Questo scrisse Giuseppe Prezzolini alla notizia del suicidio di Angelo Vivante (primo luglio 1915). Prezzolini, pur non essendo a volte d’accordo con l’autore triestino, ne riconosce lo spirito europeo. Purtroppo quel libro e il suo autore verranno sepolti per decenni dalla damnatio memoriae.
Resta la vulgata della profezia di Vivante che aveva ipotizzato la decadenza di Trieste, una volta separata dal suo hinterland imperial-regio.
Ma il personaggio e le sue tesi sono molto più complesse. Per tirare fuori dall’oblio e dalle chiuse stanze dell’Accademia, offrendo anche a un più vasto pubblico l’occasione di conoscere questo grande personaggio è stato organizzato il 2 dicembre 2016 un convegno significativamente intitolato “Angelo Vivante e il tramonto della ragione”. Iniziativa voluta da Aurelio Slataper, nipote di Scipio e presidente del Centro studi intitolato all’autore del “Mio Carso”, alla quale hanno partecipato Renate Lunzer, Anna Millo, Fulvio Senardi, Marta vator Žitko e Luca Zorzenon, storici austriaci, italiani e sloveni. Non è un caso che il nipote abbia continuato l’opera dello zio perché Scipio Slataper, che pur non condivideva la scelta di Vivante, ebbe un ruolo importante nel promuovere il suo lavoro più famoso nelle edizioni della Voce, la rivista fiorentina che ospitò parte dell’intellighenzia triestina italiana dei primi del Novecento.
Oggi “Angelo Vivante e il tramonto della ragione” diventa un volume (Hammerle editori, 368 pagine) che raccoglie quegli interventi e li arricchisce con una poderosa “Antologia” con i testi più significativi di Vivante e di altri autori che con lui hanno dialogato. L’opera promossa dal Centro Scipio Slataper e da altri enti e associazioni, è curata dallo storico Luca Zorzenon, che la presenterà, il 10 gennaio alle 17.30 al Circolo della stampa, insieme al collega Luca G. Manenti.
Diciamo subito che Vivante è un marxista convinto, fervido sostenitore dell’internazionalismo in chiave pacifista. È abilissimo nello smascherare gli artifizi della borghesia, anzi delle borghesie, per mantenersi o conquistare il potere, utilizzando l’arma del nazionalismo.
Illuminante un articolo pubblicato sul Lavoratore nel febbraio del ’14. Vivante definisce la borghesia triestina “opportunista, dalla doppia anima” austriacante economicamente e filo italiana culturalmente e politicamente, ma ne ha anche per la rampante borghesia slovena e porta l’esempio dei facchini che nel 1907 angariati dal caro-vivere chiedono di venir tutelati.
La situazione del proletariato triestino italiano e slavo, in quegli anni era spaventosa, tanto che sono ricorrenti le denunce al Municipio dell’Associazione medica triestina sull’insalubrità delle abitazioni, sui prezzi del cibo, e sulle carenze dell’approvvigionamento idrico, fonte delle ricorrenti epidemie. Ma la città sta esplodendo dal punto di vista dello sviluppo e attrae, soprattutto dal contado sloveno, manodopora a buon mercato. E proprio contro il crumiraggio che i facchini chiedono tutele. La Lega dei datori di lavoro rifiuta e risponde che alla richiesta non hanno aderito tutti i braccianti. Cos’è successo? È successo che i padroni hanno foraggiato un sindacato giallo sloveno che per “lealtà” nazionale nei confronti dei crumiri, boicotta la protesta. Ironicamente Vivante rileva che «il nazionalismo sloveno, capisce e parla …italiano».
In vari altri articoli sul Lavoratore e sull’Unità Vivante spiega come la borghesia italiana per mantenersi al potere, e quella slovena che si è risvegliata, usino la questione nazionale, approfittando di uno stato austriaco «vecchio, infrollito, odioso».
Come arriva Vivante al marxismo? Figlio di una ricca famiglia della borghesia ebraica, nasce a Trieste nel 1869. Va a Bologna a studiare giurisprudenza, laureandosi con una tesi su temi assicurativi. Ma non seguirà questa strada perché dal 1900 al 1906 diventerà giornalista al Piccolo della Sera, occupandosi per lo più di argomenti economici e, diremmo oggi, geopolitici. Il Piccolo è il quotidiano vessillo dei liberal nazionali, convintamente irredentista.
Ma il lavoro porta Vivante a frequentare anche altri ambienti come il “Circolo di studi sociali”, creazione del partito socialista e centro importante di dibattiti, a cui partecipano numerosi intellettuali e politici italiani tra cui Gaetano Salvemini, che vi tiene conferenze nel 1904 e 1905. Nasce una profonda amicizia, non scevra da contrasti, specialmente sulla questione balcanica.
Nell’ampia parte seconda del volume si possono leggere questi scritti. Nel 1906 Vivante aderisce agli ideali della II Internazionale: in particolare lo conquistano le teorizzazioni dell’austro-marxismo sul rapporto tra le lotte sociali dei lavoratori e l’esplodere delle aspirazioni nazionali, che in quel periodo stavano minando le fondamenta stessa dello Stato asburgico.
Un anno dopo si iscrive al partito socialista e tra il 1907 e il 1909 dirige “Il Lavoratore” e collabora con l’“Avanti” e la “Critica sociale”.
Il cambio di campo fa scandalo, anche perché è dura per i liberal nazionali perdere un intellettuale di quella levatura e sarà la causa della sua damnatio memoriae. In una lettera a Salvemini agli inizi del 1909 scrive che «da cinque mesi» sta lavorando a «una specie di diagnosi dell’irredentismo adriatico»: sarebbero passati ancora tre anni di studi in campo storico ed economico, condotti con estrema serietà e rigore, prima della pubblicazione per le edizioni de “La Voce”.
Come affronta Vivante lo spinoso argomento? Una testimonianza significativa si trova in un biglietto spedito da Mallnitz nel 1911, pochi mesi prima della pubblicazione dell’opera: «Io ho cercato in tutto il lavoro di spogliarmi della mia tendenza personale, quasi anazionale: non so fin quanto possa esserci riuscito». Curioso questo definirsi anazionale, che va abbinato all’aggettivo “oscuro” con il quale egli definisce il fenomeno della nazione. Oscuro perché fittizio, manipolato, Vivante non si interessa tanto dei conflitti nazionali quanto della costruzione delle identità nazionali e per farlo si spoglia anche della propria identità italiana. E ammette che per le sue ricerche vorrebbe sapere lo sloveno oltre al tedesco, il che gli procurerà la simpatia postuma degli storici sloveni specie nel secondo dopoguerra.
Poi sferra un duro colpo agli irredentisti italiani rilevando come l’italianità di Trieste sia stata via via inquinata dal massiccio arrivo dell’elemento slavo necessario allo sviluppo della città. In sostanza sono le esigenze del capitalismo che hanno trasformato etnicamente la città e ne trae un’altra fondamentAle conclusione: Trieste non può far parte del Regno d’Italia in quanto è pluretnica (non è come il Trentino etnicamente omogeneo), anche perché il risveglio degli sloveni ha frenato la loro assimilazione; in secondo luogo perché essa ha un ruolo economico nell’ambito dell’impero che perderebbe sicuramente.
Visione ottimistica, che sarà demolita dagli eventi: scoppia la Grande Guerra, i socialisti (sia italiani, sia austriaci) si dividono cedendo al richiamo patriottico. Solo – scrive Luca Zorzenon - «il socialismo triestino di lingua italiana, alla dichiarazione di guerra austriaca, sconterà il suo drammatico isolamento nella resistenza alla fede pacifista». E lo sconterà Vivante che, prostrato dalla depressione, si getterà dalla finestra del frenocomio dove si era fatto ricoverare.



giovedì 4 gennaio 2018

2018 RISPARMIATECI LE CELEBRAZIONI DELLA PRESUNTA "VITTORIA" DELLA GRANDE GUERRA, GRANDISSIMA MACELLERIA (E CATASTROFE PER TRIESTE) - Un condivisibile articolo di FELTRI su Libero -


A riprova che non siamo faziosi: così come il 23 dicembre abbiamo stigmatizzato un articolo nazionalista e italiota di Libero riguardo il nostro Porto Franco Internazionale e le "Nuove Vie della Seta", oggi invece segnaliamo un condivisibile articolo di fondo di Feltri sulla presunta "vittoria" nella Inutile Strage di 100 anni fa che ha segnato una svolta catastrofica per Trieste annessa all' Italia e così degradata da Porto dell' Impero a città di provincia della provinciale e arretrata Italietta.


Evidentemente la verità prima o poi si fa strada e fa capolino nei posti più impensati.

Ciò nonostante quest' anno faranno di tutto per continuare ad asfissiarci con celebrazioni guerrafondaie e antieuropee della cosiddetta "Vittoria", continuando le penose tiritere retoriche e nazionaliste che hanno ripreso vigore fin dal 2014 con la scusa degli anniversari del tragico evento bellico.


Ecco il testo dell' articolo:

Da Libero 4/1/18 pag. 24

Grande Guerra, grandissima macelleria, conflitto inutile

di Vittorio Feltri


Un secolo fa, nel 1918, si concluse la Prima guerra mondiale, che noi pensammo e ancora pensiamo di aver vinto.
Sciocchezza, falsità utilizzata dai retori dell’epoca allo scopo di esaltare il cosiddetto amor patrio.
La nostra fu una sconfitta in ogni senso, politico e militare.
Non si capisce perché partecipammo al conflitto. Se interroghi qualunque studente universitario in proposito non sa come rispondere oppure ripete una serie di luoghi comuni in cui lui stesso non crede.
Provate a trasformare questa domanda sui motivi del nostro intervento in una sorta di test e scoprirete che nessuno sa qualcosa sulla tragedia in questione.
Morirono centinaia di migliaia di uomini nelle trincee e durante gli assalti assurdi alle truppe austriache, e non abbiamo capito chi ce lo abbia fatto fare di organizzare ai nostri confini nordici una enorme macelleria.
L’Unità d’Italia era fresca, aveva poco più di 50 anni, e un brutto dì gli idioti del governo e del Parlamento, non certo migliori degli attuali, decisero di buttarsi in battaglia per ottenere non si sa quali benefici.
I nostri soldati erano ignari dei motivi per cui dovevano andare in montagna a farsi massacrare e a massacrare colleghi stranieri. Le soldatesche sotto
il tricolore che combattevano lassù tra i bricchi non parlavano neppure la lingua italiana, si esprimevano in massima parte nel dialetto della loro regione.
A fatica si comprendevano. D’altronde tra un alpino bergamasco e uno abruzzese, a quei tempi, l’incomunicabilità era totale. Essi erano uniti da un solo denominatore comune, costituito dalla sofferenza fisica, ai limiti della resistenza, e dalla paura di morire, che poi era una certezza.
L’ordine dei generali, lacchè dei politici dissennati, era secco e indiscutibile: premere il grilletto e uccidere il nemico presunto.
Accadde di tutto durante le carneficine.
Gli alpini che andavano avanti cadevano sotto i colpi austriaci, quelli che giustamente cercavano scampo indietreggiando erano ammazzati dagli ufficiali al grido: «crepate traditori e vigliacchi».
E adesso c’è ancora chi ci viene a raccontare che quella sul Grappa e quella lungo il Piave furono pagine eroiche. Menzogne.
La disperazione e il terrore spinsero i nostri militari denutriti e sfiancati a reagire: non volevano perire; della Patria, che manco sapevano cosa fosse, non gliene importava un accidente.
Gli storici, insufflati dai servi del potere, non hanno mai detto la verità.
E quando i cannoni hanno smesso di sparare, hanno cominciato a sparare cazzate gli strateghi da salotto romano, dipingendo le intrepide gesta del nostro esercito quale prova dell’italico valore.
Oggi, nonostante il tempo trascorso, che avrebbe dovuto indurre gli studiosi a rivedere la realtà alla luce della ragionevolezza, siamo tuttora qui ad abbeverarci ai sacri testi del militarismo più vieto, e seguitiamo a ruminare retorica per lodare il sacrificio dei soldati trucidati ubbidendo alla regia volontà.
Tutto ciò è insopportabile.
Reiterare le bugie a scopo propagandistico è un esercizio ignobile, che rifiutiamo,al quale tuttavia pochi si sottraggono.
Come cittadini, che conoscono a fondo l’Italia e la sua miseria intellettuale, ci vergogniamo di assistere a certe sceneggiate disgustose o, peggio, ridicole.
Nel rispetto delle vittime della Prima Guerra mondiale, invochiamo almeno un po’ di silenzio: basta far passare da scemi gli alpini che ci lasciarono la pelle per non realizzare i sogni di gloria d’un manipolo di deficienti seduti in poltrona.
Dal gravissimo evento bellico il Paese non ricavò alcun vantaggio, ma solo funerali di terza categoria: nessuna pensione per i superstiti e un immenso dolore per i familiari. 
Per comprendere quanto avvenne sulle Alpi è più utile ascoltare una canzone napoletana del 1915 “0 surdato ‘nnammurato” che leggere tanti libri scritti da tromboni stonati e prezzolati.

Carabinieri fucilano alpini "insubordinati" a Cercivento il 1° luglio 1916 

martedì 2 gennaio 2018

AUTONOMIA: BRUNETTA ANNUNCIA UNA VASTA "REVISIONE COSTITUZIONALE" SULL' ONDA DEL REFERENDUM VENETO - TRIESTE PUO' APPROFITTARNE PER AVERE LA "PROVINCIA AUTONOMA DI TRIESTE" COME A BOLZANO - Se non sono solo annunci elettorali, perchè i politici locali tacciono sulla revisione costituzionale autonomista così come tacciono sulla Zona Franca frontaliera che anche Gorizia rivendica ???


Come ci aspettavamo (clicca QUI), la larga vittoria del referendum autonomista in Veneto, successiva alla pesante sconfitta del referendum sulle riforme costituzionali neocentraliste Renzi-Boschi, ha innescato un processo di revisione della struttura dello Stato Italiano che probabilmente sfocerà in modifiche costituzionali con maggiori autonomie e federalismo: di che tipo e in che tempi dipende anche dai cittadini.

Il veneziano on. Brunetta, influente capogruppo alla camera di Forza Italia, in un' intervista al Corriere della Sera del 2 gennaio 2018, edizione del Veneto che arriva anche a Trieste, ha annunciato un percorso autonomista che sfocerà in una revisione costituzionale.

Sono solo promesse elettorali ad una regione fortemente autonomista?
Un tentativo di rallentare la corsa che ormai tutte le regioni stanno facendo per richiedere maggiori competenze e autonomie?
Non lo sappiamo, ma bisogna prendere atto che dal referendum Veneto si è messo in moto un processo autonomista che può sfociare in una ristrutturazione di rango costituzionale.
Riteniamo che proseguirà necessariamente anche con governi nazionali diversi trattandosi di una tendenza geopolitica di fondo attiva a livello europeo dalla Catalogna alle Fiandre passando per la Baviera
.

Semplicemente il Centro Destra, più pragmatico di un PD schiacciato su posizioni neocentraliste, cerca di cavalcare e trarre vantaggio da una tendenza di fondo alla frammentazione e alla riorganizzazione per aree omogenee del territorio italiano che ha come epicentro il Veneto e come innesco la schiacciante vittoria autonomista al referendum del 22 ottobre .

Quando abbiamo iniziato a parlare di Provincia Autonoma di Trieste come Bolzano ci è stata fatta l' obiezione che sarebbe stata necessaria una legge costituzionale di difficile approvazione - analoga, ad esempio, a quella del 2001 presentata dal triestino on. Willer Bordon  già del PCI e poi confluito nella Margherita, una delle componenti del PD (clicca QUI per il testo di legge) - .

L' approvazione sarebbe assai più facile se si trattasse di un semplice comma all' interno di una più generale legge di revisione costituzionale il cui iter sembra essersi ormai avviato politicamente (salvo smentite e retromarce perdendo la faccia).

Sarebbe oltremodo sciocco non approfittare, nell' interesse di Trieste, di questa nuova situazione e lasciarci tagliar fuori dai benefici che ricadrebbero solo su altri territori.
Autoescludersi da un processo ormai avviato di progressiva autonomia e federalismo è semplicemente autolesionista.

Sorprende parecchio il silenzio della politica triestina di fronte ad un progetto di tale portata istituzionale appena esplicitato da Brunetta e che coinvolge la specialità regionale (vedi sotto il testo).
Progetto politico che a loro dovrebbe essere noto ben prima che alla stampa: ma si sa che qui girano con l' aquilone quando non sono in Consiglio Comunale a discutere importantissime mozioni sullo Yoga o Via Almirante.

Queste la parole di Brunetta:
Se andrete al governo, come intendete gestire la delicata partita autonomista?
«Si è aperta una fase nuova, abbiamo l’occasione straordinaria di realizzare una vera autonomia, senza egoismi in stile Catalogna, nel solco della  Costituzione, un federalismo a “geometria variabile”.
Meno Stato invadente al Nord, più Stato efficiente al Sud.
Ispirati da quanto fatto in Veneto e Lombardia, un’iniziativa ben diversa da quella partitico-ideologica dell’Emilia Romagna, quando saremo al governo proporremo un referendum in tutte le Regioni per capire quali siano le aspettative dei cittadini, perché io credo, ad esempio, che sulla sanità i calabresi non la pensino esattamente come i veneti.
Coinvolgendo anche le città metropolitane avvieremo un processo riformista che investirà anche le specialità, nell’ottica di un maggior equilibrio 
(leggi specialità del FVG ndr), e approderà infine ad una revisione costituzionale.
Altro che i tavoli e i tavolini del Governo di Centrosinistra".

Una Provincia Autonoma di Trieste come Bolzano sarebbe utilissima, se non assolutamente necessaria, per rendere il nostro territorio, su cui insiste il Porto Franco Internazionale di Trieste, in grado di rispondere efficacemente alle sollecitazioni provenienti dai mercati globali.

Infatti tutti i buoni propositi sul rilancio del Porto Franco rischiano di essere pesantemente ostacolati dalla burocrazia e dal fisco italiani nonchè da altre tare nazionali quali la criminalità organizzata.

E' necessario allontanare i ministeri centrali ed avere la capacità di governare e gestire in loco.

Pensiamo solo ai danni che la Soprintendenza del Ministero ha fatto nella gestione di Miramare e dei vincoli su Porto Vecchio e Nuovo; pensiamo alle defatiganti pratiche e lentezze che comporta la dipendenza dal Ministero dell' Ambiente del SIN (sito inquinato nazionale) che comprende tutta la Zona Industriale che al contrario dovrebbe essere rapidamente usata per insediamenti produttivi in regime di Punto Franco.

Ma pensiamo anche alla possibilità di far crescere una nuova leva di amministratori e classe dirigente locale di cui Trieste è pressochè priva e di cui ha comunque bisogno (... anche in caso di indipendenza se non vuole diventare una colonia, di qualcun altro ma pur sempre colonia).

Il Sudtirolo ha un elevatissimo livello di prosperità grazie all' autonomia che gli consente anche di trattenere i 9/10 delle tasse e di utilizzarle senza dipendere dai ministeri romani.
Cosa vorrebbe dire trattenere sul nostro territorio le tasse, compreso quelle generate dal Porto Franco Internazionale, lo abbiamo già spiegato QUI e QUI.

Sappiamo che alcuni nostri lettori di fede "indipendentista integralista" ci hanno attaccato in modo greve e ingiustificato perchè avversano questa ipotesi e perfino la parola "autonomia", che noi invece riteniamo essere una fase inevitabile e necessaria, anche per poter coinvolgere e aggregare i cittadini in larga maggioranza moderati.

Agli indipendentisti "duri e puri", secondo noi chiaramente privi di pragmatismo e talvolta di senso della realtà, rivolgiamo l' invito a riflettere su alcuni punti, leggendo oltre i titoli, prima di dedicarsi alle ingiurie:

1) Il processo indipendentista in Catalonia, Scozia e altrove dimostra che non sono cose che si realizzano dall' oggi al domani o per decreto di qualche tribunale e che c'è sempre una fase autonomista di autogoverno del territorio in cui si formano istituzioni e classe dirigente locale. E che oltre ad una strategia ci vogliono una tattica e una politica realiste.

2) Trieste non ha mai avuto da 100 anni una fase autonoma e non ha formato una classe dirigente in grado di governare.

3) Aspettarsi l' intervento risolutivo di qualche stato estero o di qualche istituzione internazionale che faccia rispettare il TdP del '47 integralmente, non si sa in che modo e con che strumenti coercitivi, è tremendamente ingenuo perchè nessuno fa beneficenza, soprattutto in politica internazionale. 
E forse non è nemmeno auspicabile perchè saremmo comunque fagocitati da interessi esterni.
Inoltre
 le organizzazioni internazionali non dispongono di strumenti e polizie per far rispettare i loro pareri, nella remota ipotesi desiderassero esprimersi ufficialmente sulla questione di Trieste, come le migliaia di risoluzioni ONU inattuate dimostrano.

4) Ricordiamo che la formazione indipendentista pro -TLT che ha ricevuto più voti, nel generale disastro, è stata quella di Jure Marchesich che ha la "Provincia Autonoma di Trieste" tra i suoi obiettivi dichiarati (clicca QUI): rivolgano dunque critiche e insulti prioritariamente a loro.

5) La passata e disastrosa esperienza della Lista per Trieste non ha conquistato alcuna autonomia perchè era una operazione  mimetica, municipalista e non autonomista, di un gruppo dirigente dichiaratamente nazionalista italiano con forti componenti razziste antislovene (da Irneri a Camber passando per Il Piccolo di Alessi) che è riuscito a strumentalizzare - in occasione di Osimo e contestandolo da un punto di vista nazionalista - l' endemico spirito autonomista di Trieste, confluendo poi giustamente in Forza Italia.
Ora non c' è niente che nemmeno assomigli a quella situazione di 40 anni fa.

"L’uomo che sposta le montagne comincia portando via i sassi più piccoli" (Confucio).



domenica 31 dicembre 2017

2018 LA SVOLTA - PORTO FRANCO: BATTAGLIA GIUSTA E VINCENTE - "I punti franchi non erano l’ossessione di quattro nostalgici di un mondo estinto" lo scrive persino il Piccolo - IN ITALIA TUTTE LE COSE BUONE SONO MINACCIATE DALLA MAFIA - Autonomia come a Bolzano, e collaborazione mitteleuropea sulla sicurezza, per non permettere a burocrazia, fisco e criminalità italiani di sabotare la rinascita di Trieste e del suo Porto Franco Internazionale -

"I punti franchi non erano l’ossessione di quattro nostalgici di un mondo estinto" lo scrive persino il Piccolo smentendo se stesso (vedi sotto) visto che era stato il principale responsabile mediatico della denigrazione del Porto Franco definito continuamente "obsoleto e inutile", "questione da nostalgici" e perfino "da abolire" (copyright Pacorini) in ossequio al pensiero unico di una classe politica e dirigente locale che ha perso la bussola da decenni.

Invece di pensare al "core business" di Trieste che è sempre stato il suo Porto Franco Internazionale, snodo tra Europa Centro-Orientale ed Oriente (medio e lontano), si erano persi in fantasticherie demagogiche sul turismo come motore economico principale con annesse "sdemanializzazioni e urbanizzazioni" in chiave turistica di aree produttive come Porto Vecchio.
Aree di cui Trieste ha invece estremo bisogno perchè sono pochi gli spazi utilizzabili  per una cosa che era ormai divento tabù nominare: industria e manifattura che possono essere pulite e ad alta tecnologia (vedi Saipem e Seleco).

Fortunatamente un movimento popolare a forte componente indipendentista e autonomista ha messo in luce le opportunità del Porto Franco, regolato dall' Allegato Ottavo, costringendo le istituzioni a confrontarsi su questi temi.
E questo è un merito che resterà nella storia di Trieste.

Contemporaneamente la "Nuova via della Seta" del Presidente Xi ha delineato il quadro strategico geopolitico della rinascita del nostro porto.
Siamo stati i primi, e per lungo tempo gli unici a Trieste, a recepirlo e pubblicizzarlo in ogni modo.

Fino a poco più di un anno fa chi parlava di "Porto Franco" e "Nuova Via della Seta", che sono stati i temi centrali del nostro blog Rinascita Triestina, veniva attaccato e persino deriso con accuse che andavano dal "nostalgico" al "velleitario"(entrambi copyright Possamai ex-direttore del Piccolo) all' "utopista".
Ride bene chi ride ultimo: i fatti dimostrano il contrario.

Oggi il giornale locale parla di "due sindaci" di Trieste ma sbaglia.
Abbiamo in realtà un Borgomastro che è il "Direttore del Porto Franco" dell' Allegato VIII che si occupa delle cose serie come lo sviluppo dell' economia e delle connessioni internazionali di Trieste, e una macchietta prodotta da una classe politica disastrata che fa il simpatico ed ha una Giunta e una Maggioranza che è in realtà una fabbrica di gaffe e scemenze che arrivano fin sui media nazionali deteriorando l' immagine pubblica della nostra città.

Ma se può dirsi ormai vinta la battaglia per affermare la centralità e l' importanza del Porto Franco contro le posizioni di una classe politica e dirigente vecchia, incapace e da mandare al macero, non dobbiamo nasconderci i rischi.

In Italia ogni cosa buona viene toccata e trasformata in letame dalla Mafia e ce lo ricorda oggi in prima pagina lo stesso Piccolo.
Ma vi sono pericoli meno spettacolari e più insidiosi che si chiamano Burocrazia e Fisco Rapace particolarmente rigogliosi in Italia e capaci di stritolare le imprese ed allontanare gli investitori internazionali che non possono accettare i tempi biblici e le tortuosità burocratiche italiane.


Non sono pericoli fittizi: al porto di Taranto non arriva più un solo container perchè gli operatori cinesi si sono allontanati, dopo un iniziale interesse, proprio per questi motivi, trasferendosi al porto greco del Pireo che è cresciuto in modo esponenziale.

Noi riteniamo che la principale e urgente medicina per questi problemi sia una forte autonomia e autogoverno del territorio sul modello di Bolzano e delle tuttora Città-Stato Portuali autonome del Nord come Amburgo e Brema: per allontanare lo strapotere paralizzante dei ministeri e permettere al territorio di autogovernarsi e rispondere in tempi rapidi alle sollecitazioni dei mercati internazionali senza interferenze romane.

Nel contempo il segnalato pericolo di infiltrazioni mafiose indica la necessità di autorità di livello europeo preposte alla sicurezza.
Il nostro Porto Franco serve un ampio entroterra mitteleuropeo ed è opportuno che ci sia una azione congiunta e coordinata delle istituzioni preposte alla sicurezza di tutta quest' area europea.  
Si facciano accordi a livello europeo e si uniscano le forze per contrastare la criminalità di ogni tipo a partire dai porti, come il nostro, che servono vaste aree: come si vede quotidianamente l' Italia, malgrado l' impegno e la capacità di singoli magistrati e funzionari, non è in grado di farcela ed ha addirittura perso il controllo di parti del territorio nazionale. 

Non vogliamo finire come Gioia Tauro e c'è bisogno della collaborazione 
sulla sicurezza principalmente con Germania, Austria e Slovenia.


TRIESTE SEMPRE PIU' AUTONOMA ED EUROPEA: questa la strada da perseguire per la rinascita e la liberazione di Trieste dalle sabbie mobili in cui è stata gettata nel 1918, giusto cento anni fa, con la sciagurata annessione all' Italia.

Forse non piacerà a chi si illude di avere tutto e subito e non vuole seguire un percorso di realizzazioni graduali, ma servirà a portare a casa risultati concreti, sviluppo economico e occupazione ed a proseguire sulla strada giusta come è stato fatto col Porto Franco.


E' bene che cominciamo a impratichirci con il millenario pensiero cinese:
"L’uomo che sposta le montagne comincia portando via i sassi più piccoli"
(Confucio).

Ecco l' articolo del Piccolo che abbiamo citato:

I DUE “SINDACI” DI TRIESTE
di ROBERTO MORELLI

 L’aria di rinascita che si respira dipende innanzitutto dalla forma smagliante attraversata dal porto governato da un manager come D’Agostino

Da quanto non accadeva, che Trieste potesse guardare all’anno che verrà con una fiducia non venata d’incognite? Da quanto, che potessimo attenderci una città in condizioni migliori di qui a 12 mesi senza essere presi per folli? Forse non è mai accaduto a memoria recente. E a dirlo fa quasi impressione: il 2018 si apre con ottimi auspici per l’economia del capoluogo e in generale dell’area giuliana.
Se poi gli auspici diventeranno fatti, dipenderà in gran parte da noi.
L’aria di rinascita che si respira come mai in passato ha due anime: il porto e il turismo.
Ed è la prima quella che conta.

La seconda è un acceleratore, un’iniezione di adrenalina; è lo sprizzo di vitalità che promana quando gli spettatori alla tua corsa ti dicono che ce la puoi fare.
La forma smagliante dello scalo dipende da una combinazione di fattori, e in primis da un manager dalle idee chiare e dalla capacità di realizzarle come Zeno D’Agostino, a cui non difetta pure l’abilità di navigazione politica.
Nominato dalla sinistra, non gli è stato torto un capello dalla destra: sia perché ha cercato e trovato la quadratura del cerchio di un conflitto quasi secolare (recupero del porto vecchio e contestuale rilancio del punto franco, anziché le due istanze contrapposte), sia perché ha trovato nel sindaco Dipiazza un sostegno pragmatico e fattivo, laddove un politico più “ideologo” si sarebbe messo di traverso rivendicando le competenze sulle aree cittadine.
La governatrice Serracchiani ha offerto una strategia, un ombrello istituzionale e l’autostrada romana (soldi e decreti), completando il quadro di una troika politicamente scombinata che compone proprio il Comitato di gestione del porto. Con il recente decreto attuativo delle franchigie,
Trieste è oggi l’unica città al mondo con due sindaci: l’uno (Dipiazza) governa la città, l’altro (D’Agostino) i punti franchi ormai fisicamente staccati dal porto. Che la cosa funzioni, è un mezzo miracolo. Eppure funziona.
Ma l’accelerazione dirompente sta arrivando da altrove.
Come la Trieste asburgica fu fatta da ebrei, greci e armeni, così quella di questo quarto di secolo potrebbe essere fatta dai cinesi.
Trieste sarà con Genova lo snodo italiano della “Via della Seta”, ovvero del colossale progetto di “colonizzazione” (parola che disturba, ma così è) da parte della Cina del sistema euro-asiatico dei trasporti marittimi.
Le visite incrociate delle delegazioni governative cinesi e italiane non sono state quattro viaggetti a vanvera: a Pechino non si perde tempo in blablà istituzionali.
Una relazione privilegiata di traffici con Shanghai
comporta la connessione con una distesa di 1.300 moli lungo 127 chilometri lineari per 5.000 chilometri quadrati: l’equivalente di uno scalo ininterrotto da qui a oltre Venezia. Non è un porto: è il centro del mondo.
L’arrivo a Trieste nel 2018 di una delegazione della “China Construction”, ovvero il più grande progettista e costruttore di porti dell’Asia, ci dice molte cose.
La prima: l’unica free zone portuale europea che include la lavorazione industriale ha fatto drizzare le orecchie a chi in Cina determina rotte e investimenti inimmaginabili, a dimostrazione del fatto che i punti franchi non erano l’ossessione di quattro nostalgici di un mondo estinto.
 La seconda: per la Cina muovere traffici significa anche e soprattutto costruire, gestire e controllare le infrastrutture portuali, ovvero il business.
La terza e più importante: se quest’opportunità decolla, è di tali dimensioni da prefigurare opportunità di sviluppo per Trieste che non riusciamo ancora a considerare.
Non sappiamo dove questo ci porterà.
Forse avremo centinaia di aziende cinesi in aree franche sempre più estese, e con un “sindaco del porto” sempre più importante.

Forse nella gestione dei moli nuovi nomi impronunciabili si affiancheranno a quelli familiari di Maneschi, Parisi, Samer.
Forse non basterà un Molo Ottavo, e tra vent’anni anche la Ferriera sarà un’enorme e redditizia banchina movimentata da chi alimentava l’altoforno, e avremo trovato un qualche Paperone d’Asia che l’avrà smantellata.
Forse non accadrà nulla di ciò: ci accapiglieremo per anni su qualche questione di principio, e il tutto svanirà come una bolla di sapone (soprattutto se permetteremo alla burocrazia, al fisco e alla criminalità italiani di sabotarci NdR)
Sicché anche il 2018 non sembra più così diverso dai precedenti. Siamo come sempre a un bivio. E sta a noi scegliere la direzione, o rimanere come sempre pensosi davanti al bivio.