RESTITUIRE TRIESTE AL FUTURO -

AUTONOMI DALL' ITALIA MA CONNESSI CON IL MONDO - RESTITUIRE TRIESTE ALLA MITTELEUROPA - RESTITUIRE TRIESTE AL SUO FUTURO: CENTRALE IN EUROPA INVECE CHE PERIFERICA IN ITALIA -

sabato 19 novembre 2016

RASSEGNA GEOPOLITICA SETTIMANA 13-19 NOVEMBRE -


Il mondo attorno a Trump
In settimana, il mondo e gli Stati Uniti hanno iniziato a prendere le misure a Donald Trump.
A livello interno, il presidente eletto ha effettuato le prime nomine – spie della battaglia per l’anima del Partito repubblicano – e sta cercando di arruolare manodopera burocratica senza cadere ostaggio dell’odiato establishment e delle lobby. Proposito quasi utopico, essendo queste due élite di fatto le uniche in grado di riempire i quadri intermedi dell’amministrazione.
Sul fronte estero, si è sentito al telefono con Putin e Xi e ha incontrato il primo leader straniero, il premier giapponese Shinzo Abe. Tokyo è molto preoccupata della retorica che ha portato il candidato repubblicano al successo elettorale, soprattutto dei commenti sulla necessità per il Giappone di aumentare il contributo finanziario all’ombrello di protezione Usa.
Le esternazioni trumpiane rischiano tuttavia di accordarsi in parte ai timori della comunità strategica Usa nei confronti dell’arcipelago del Sol Levante. Ne ha scritto Dario Fabbri:
Da sempre Washington considera Tokyo un avversario strategico.
Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento al dipartimento della Guerra si discuteva apertamente di una possibile invasione nipponica della California (era il tempo del cosiddetto yellow peril) e nel 1898 gli Stati Uniti strapparono le Filippine alla Spagna proprio per tranciare la linea di rifornimento del Giappone.
Privato dell’accesso al petrolio, nel 1941 l’imperatore Hirohito ordinò l’attacco contro Pearl Harbor che trascinò gli americani nella seconda guerra mondiale.
Il Giappone resta oggi una potenza assai capace e fragile, come ogni paese che dipende totalmente dall’importazione di materie prime e dall’esportazione dei propri prodotti.
Dotato di superiore expertise marinara rispetto ai suoi vicini (Cina compresa), è in grado di aggiudicarsi qualsiasi conflitto regionale, a patto che le ostilità rimangano circoscritte nel tempo, e in caso di percepito pericolo potrebbe muovere alla temporanea annessione delle vie marittime contese nel Mar Cinese Meridionale e nel Mar Cinese Orientale, escludendo gli Stati Uniti e generando un conflitto di notevole intensità con le potenze rivierasche.
[…] Non a caso la percezione del Giappone quale potenziale antagonista è presente in ogni esternazione di Donald Trump, che puntualmente indica Pechino e Tokyo quali (truffaldini) rivali della superpotenza.
A tenere banco in settimana, soprattutto in funzione anticinese, è stata però l’agenda commerciale, come ha scritto Fabrizio Maronta:
Nell’intento di trasferire alla pratica di governo l’istantaneità dei tweet che hanno dettato toni e temi della campagna, la squadra del neoeletto presidente ha fissato il traguardo del primo giorno alla Casa Bianca: aprire un processo di revisione del Nafta, il trattato di libero scambio nordamericano con Canada e Messico.
Nel frattempo l’amministrazione promette di brandire il dossier cinese, arrivando a stabilire entro il centesimo giorno se Pechino è etichettabile come “manipolatore di valuta” (paese che pratica cioè svalutazioni competitive) ai sensi della normativa interna e internazionale (Wto), affinché il Congresso – su istanza del dipartimento del Tesoro e dello stesso presidente – possa imporle ritorsioni commerciali.
Altri cento giorni e Trump dovrebbe decidere se il Nafta può essere emendato in termini più favorevoli all’America (o meglio alla sua base elettorale, che reclama gli impieghi delocalizzati oltre il Rio Grande), oppure se è il caso di denunciare l’accordo e porvi unilateralmente fine.

Il fronte del Venezuela [di Niccolò Locatelli]
Mentre la vicina Colombia raggiunge un nuovo accordo di pace con la guerriglia delle Farc (che il presidente Santos non vuole sottoporre a un nuovo referendum), il “dialogo” in Venezuela fa tanti passi avanti quanti passi indietro fa l’opposizione.
Nella risoluzione emessa al termine della riunione del 12 novembre è scomparsa ogni menzione al referendum revocatorio del presidente Maduro e alle elezioni regionali, le quali rimangono congelate per decisione incostituzionale governativa.
Nei giorni successivi, mentre l’esecutivo violava ancora la Costituzione prorogando per la quinta volta il decreto di emergenza economica (garantendosi fondi aggiuntivi) senza consultare il parlamento, unico organo controllato dall’opposizione, quest’ultima compiva diligentemente uno dei punti dell’accordo: i tre deputati dello Stato di Amazonas, cruciali per garantire al fronte anti-chavista una supermaggioranza che permetterebbe la convocazione di un’assemblea costituente e la revoca dei magistrati della Corte Suprema, si sono dimessi per permettere una nuova elezione.
Sinora la mediazione del Vaticano e di Unasur è una benedizione per il governo, che – senza “fare nulla” in cambio, come riconosce il portavoce del fronte anti-chavista – ha ottenuto un calo della tensione e importanti concessioni da un’opposizione che inizia a spaccarsi sul senso stesso di questo dialogo.
Una vittoria tattica, dato che i problemi economici del paese non sono scomparsi. Ma tanto basta, per ora, a tenere in ballo Maduro.

Il Kosovo jihadista [di Luca Susic]
Nel corso di una serie di operazioni di polizia iniziate lo scorso 5 novembre, le autorità del Kosovo hanno arrestato 19 persone (18 locali e un cittadino macedone) sospettate di aver pianificato attacchi terroristici sul territorio dell’ex provincia autonoma serba e dell’Albania.
I 19 sono inoltre accusati di essersi avvalsi dei servigi di Lavrim Muhaxheri, il jihadista balcanico più famoso, apparso in diversi video propagandistici e in contatto con alcuni estremisti di etnia albanese residenti in Italia e arrestati dalle nostre autorità nel corso del 2015.
Secondo alcune fonti, in particolare, gli aspiranti jihadisti avevano intenzione di colpire la nazionale israeliana di calcio e i suoi tifosi che si erano recati a Tirana per una partita di qualificazione ai Mondiali del 2018, oltre che non precisati obiettivi in territorio kosovaro.
L’incontro di calcio si sarebbe dovuto tenere a Scutari, ma è stato spostato ad Elbasan per motivi di sicurezza in seguito ai primi fermi e all’intervento dei servizi segreti dello Stato ebraico che avevano messo in guardia i propri connazionali dei rischi.
Il successo dell’operazione rappresenta un’ottima pubblicità per le autorità kosovare, da anni accusate di far poco o nulla per fermare l’avanzata dell’estremismo islamico che, grazie anche agli investimenti esteri e ai legami con altri gruppi eversivi locali, in pochi anni è riuscito ad acquisire forza e proseliti.

La Russia e i social network [di Luca Mainoldi]
La decisione di bloccare (si spera temporaneamente) LinkedIn in Russia sembra essere un avvertimento del Cremlino ai giganti statunitensi del Web, i cosiddetti Gafam (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft), di conformarsi alla legge approvata dalla Duma nel 2014 ed entrata in vigore nel 2015, che impone lo stoccaggio dei dati degli utenti russi in server collocati fisicamente sul suolo della Federazione Russa.
Il pretesto di questa norma è quello di difendere i dati dei cittadini russi dallo spionaggio americano, ma in questo modo gli organi di sicurezza russi vedono rafforzati i propri poteri di controllo sul Web. Si ricordi che già ora gli internet service provider russi sono obbligati a installare nei loro server delle “scatole nere” del sistema Sorm (sistema delle misure delle ricerche pperative), ora utilizzato dall’Fsb e la cui genesi risale al Kgb sovietico.
I giganti americani saranno probabilmente costretti a piegarsi al diktat del Cremlino. Microsoft, che è in procinto d’acquistare LinkedIn, lo sta già facendo. Nel frattempo un oligarca vicino al Cremlino ha preso il controllo di  VKontakte (Vk), il “Facebook russo”.
Sbaglia però chi vede questa mossa come un segnale di forza. La creazione di una guardia nazionale che risponde direttamente al Cremlino, la riorganizzazione dei servizi segreti (che dovrebbero essere riuniti in un’unica entità, l’Mgb) e ora l’annuncio di un giro di vite sul Web sembrano segnali di debolezza di un potere che teme le elezioni presidenziali del 2018.

Le elezioni in Moldova e Bulgaria
La settimana si è aperta con la vittoria alle elezioni presidenziali di candidati descritti come filorussi in due paesi dell’Est Europa.
È sicuramente il caso della Moldova, dove nell’affermazione di Igor Dodon ha svolto un ruolo determinante la regione separatista della Transnistria, come ha scritto Mirko Mussetti:
Gli elettori transnistriani simpatizzanti di Dodon sono stati accompagnati in modo organizzato con il placet di Tiraspol nelle sezioni di voto a ovest del fiume Nistru; qui, a differenza degli studenti moldavi, potevano recarsi a votare in più di una località semplicemente dichiarando che non avrebbero espresso più di un voto.
Per la prima volta nella sua storia, Tiraspol interviene direttamente in una campagna elettorale moldava: un utile esperimento in vista delle probabili elezioni parlamentari anticipate. Chișinău non potrà ricambiare con la stessa moneta alle elezioni presidenziali transnistriane del prossimo 11 dicembre: il sistema transnistriano è chiuso e controllato.
Per Mosca la vittoria di Dodon è manna dal cielo: non solo rappresenta un passo preliminare per allontanare il piccolo paese associato dell’Ue dall’orbita della Nato, ma può bloccare il tentativo di Chișinău di far ritirare le truppe russe dalla regione separatista. Nel frattempo, Kiev ha richiamato in Ucraina il proprio ambasciatore.

La vittoria di Radev in Bulgaria, invece, non può essere classificata come un successo filorusso e antiatlantista, spiega Anna Miykova:
La Russia potrà sicuramente beneficiare di una retorica più positiva rispetto a quella accusatoria dell’attuale presidente Plevneliev, convinto sostenitore della causa euro-atlantica da contrapporre all’aggressività di Mosca. Ma nella sostanza non cambierà molto.
È presumibile che l’ex Generale, da brillante allievo dell’Air War College di Montgomery, si serva delle qualifiche acquisite in Occidente per proporre una visione pragmatica dell’interesse nazionale, in equilibrio tra la fedeltà alla Nato e all’Ue e un riavvicinamento alla Russia.
Si esclude che Radev possa disattendere gli impegni assunti dalla Bulgaria nell’Alleanza atlantica, come il dislocamento di una Brigata internazionale in Romania o la concessione agli Stati Uniti – risalente al 2006 – di alcune basi militari. […]
Le dichiarazioni di Radev sulla necessità di “formare la nostra politica a Sofia e avere la dignità di difenderla al di fuori dei confini” denotano un atteggiamento che potrebbe spingere il paese a ridefinire alcune sue posizioni all’interno della Nato e dell’Ue (il neopresidente ha criticato le quote migranti e invitato a ridiscutere gli accordi di Dublino).

Anniversari geopolitici del 18 novembre
1626 – Viene consacrata la Basilica di San Pietro in Vaticano.
1916 – Prima Guerra Mondiale: finisce la battaglia della Somme.
1918 – La Lettonia dichiara l’indipendenza dalla Russia.
1976 – Il parlamento spagnolo approva una legge che inaugura la transizione dal franchismo alla democrazia.


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