RESTITUIRE TRIESTE AL FUTURO -

AUTONOMI DALL' ITALIA MA CONNESSI CON IL MONDO - RESTITUIRE TRIESTE ALLA MITTELEUROPA - RESTITUIRE TRIESTE AL SUO FUTURO: CENTRALE IN EUROPA INVECE CHE PERIFERICA IN ITALIA -

domenica 23 ottobre 2016

SU REGENI L' ITALIA HA SBAGLIATO TUTTO - DOPO LA SBRONZA DI STRUMENTALIZZAZIONI, GRANCASSA MEDIATICA E RETORICA DELLA "BATTAGLIA DEGLI STRISCIONI" E' ORA DI RAGIONARE - UN ARTICOLO DI "LIMES" PER I NOSTRI LETTORI -

LIMES, l' autorevole rivista di geopolitica (del gruppo Espresso diretta da Lucio Caracciolo), pubblica un nuovo, chiarissimo - anche sulla responsabilità dei media -, articolo sul "caso Regeni" che a Trieste è al centro dell' attenzione grazie alle sfacciate strumentalizzazioni e ai fiumi di retorica che hanno accompagnato la penosa "battaglia degli striscioni" di cui sono stati squallidi protagonisti Centro Destra e Centro Sinistra e di cui il Piccolo è stato la grancassa ( clicca QUI ).

Offriamo ai nostri lettori il testo integrale dell' articolo che, ovviamente, tratta la questione dal punto di vista della politica internazionale italiana:

Sul caso di Giulio Regeni, l’Italia ha sbagliato tutto

L’approccio di Roma all’uccisione del ricercatore italiano è stato fallimentare. La fretta di trovare un responsabile ha avuto la meglio sulla necessità di valutare le circostanze e le conseguenze politiche di questo omicidio. A circa 9 mesi dal ritrovamento del corpo, il bilancio è doppiamente negativo: la verità che giustamente pretendiamo è ancora lontana e i rapporti con l’Egitto sono ai minimi storici. A tutto vantaggio di altri paesi europei, forse non estranei alla vicenda.
Sino a prova contraria la politica è, o almeno dovrebbe essere, “l’arte del possibile”. L’arte di individuare cioè quali risultati in linea con differenti orientamenti esistenziali sia possibile conseguire in determinati momenti storici con i mezzi a disposizione e a dispetto degli ostacoli che si frappongono fra noi e il risultato.

Dal lato dei principi e dei valori che la ispirano e che debbono rimanere l’orientamento costante da cui non deflettere nei momenti più duri, essa è quindi puro ideale. Dall’altro però sconta con un maturato realismo la necessità giornaliera di volare sempre più o meno all’altezza del terreno, pena la rinuncia a traguardi che si potrebbero conseguire e quindi la sottrazione, proprio a quel popolo che la politica serve, di possibilità e beni di cui esso avrebbe potuto usufruire se le cose fossero state gestite con maggiore oculatezza.

La politica è un perenne confronto/scontro fra idealismo e realismo, una costante ricerca di un punto di equilibrio che possa soddisfare i nostri principi senza scendere al di sotto della linea rossa e nel contempo permetterci di conseguire almeno parte di quelli che sarebbero stati i risultati ottimali.

La politica è quindi anche l’arte del compromesso: un compromesso in cui a volte parte dei principi sono sacrificati alla realtà delle cose, altre volte è sacrificato – sull’altare di valori e principi – parte di quell’utile che una visione più spregiudicata delle cose avrebbe reso conseguibile.

Il massimo errore che si può compiere è quello di arroccarsi su posizioni di principio, mirando soltanto a mantenersi puri e duri, a preservare l’integrità di una linea di condotta, a premiare l’ideale scordando la realtà, o viceversa a privilegiare unicamente il realismo a scapito di ogni altra considerazione.

Premessa forse un po’ lunga, ma indispensabile qualora si voglia compiere un esame equilibrato del cosiddetto “caso Regeni” e degli avvenimenti che si sono succeduti da quando il corpo martoriato del giovane ricercatore universitario italiano è stato rinvenuto ai margini della autostrada che congiunge Il Cairo ad Alessandria.

Si tratta di una vicenda che, al di là della tragica dimensione umana, ha indubbiamente anche un lato politico, considerato come le sue ricadute incidano da alcuni mesi sulle relazioni tra l’Italia e l’Egitto, producendo conseguenze negative di cui entrambi sono stati costretti ad accollarsi il non indifferente onere.

In questa occasione, emerge chiarissima la contrapposizione fra una valutazione ideale – che imponeva a noi italiani di schierarci con compattezza a fianco di una famiglia che giustamente pretende la verità sul calvario di un figlio nostro concittadino, ucciso con barbarie inaudita – e le considerazioni di carattere pratico – che ci suggerivano di proteggere un rapporto internazionale consolidato da decenni, di grande importanza per il nostro paese e da cui entrambe le parti avevano sempre ricavato considerevoli utili.

Era uno di quei classici momenti in cui la politica avrebbe dovuto esercitare con avvedutezza la sua funzione mediatrice, rilanciando l’indagine allorché essa dava segno di languire ma mantenendosi pronta a temperare ogni eventuale eccesso.

Purtroppo dall’inizio alcuni fattori hanno sconvolto quello che sarebbe stato l’ordinato andamento delle cose, trasformando rapidamente l’intera vicenda in un nodo gordiano difficile, se non addirittura impossibile, da sciogliere.

Il primo è indubbiamente consistito nella velocità eccessiva con cui la delegazione industriale italiana che si trovava al Cairo ha abbandonato più o meno all’istante l’Egitto appena avuto notizia dell’assassinio, sospendendo immediatamente i colloqui in corso. Un gesto che è suonato come una pubblica condanna della controparte, quasi esistessero prove sicure che per il momento non si volevano rendere pubbliche ma che permettevano di individuare senza ombra di dubbio i responsabili del delitto.

Peggio ancora: il fatto che quella italiana fosse una reazione governativa e che incidesse su un’attività che coinvolgeva i due governi fece subito pensare che le responsabilità del Cairo potessero essere responsabilà ufficiali e che l’unico interrogativo rimasto fosse quello sui nomi e il livello dei personaggi egiziani responsabili dell’assassinio del povero Regeni e del successivo tentativo di occultamento del suo cadavere.

Il baratro creato da questo iniziale passo falso fu poi rapidamente ingigantito dalla campagna montata dalla stampa italiana, centrata su decine di inviati speciali privi della minima esperienza di paesi arabi scaraventati al Cairo con l’ordine di ricostruire le ultime giornate del giovane ricercatore, arricchendo ogni servizio di particolari inediti capaci di distinguerlo da quelli delle altre testate. Cosa che essi hanno fatto puntualmente, riuscendo in meno di una settimana a creare il classico mistero all’italiana, in cui non si ricerca più la verità perché esiste a priori una verità accettata come tale che deve essere assolutamente dimostrata e che nessuno può più permettersi di mettere in dubbio.

Il secondo fattore fu l’atteggiamento assunto nei riguardi dell’Egitto e della sua classe dirigente, criminalizzata dall’inizio fino al livello più elevato, dando per scontati coinvolgimenti e responsabilità che scontati non erano affatto. Il gioco risultò abbastanza facile, poiché si partiva da una verità incontestabile, cioè che il paese fosse retto con mano di ferro e con leggi da stato di emergenza che incidevano in maniera pesante su diritti e libertà individuali. Da qui si traeva la deduzione – tutta da dimostrare, ma enunciata anch’essa come vera – che ogni decisione in merito al caso Regeni fosse stata adottata con l’approvazione del presidente al-Sisi o perlomeno fosse stata tempestivamente portata a sua conoscenza.

Sicuramente da un certo momento in poi è andata così, considerato il rilievo internazionale assunto dal caso, ma nelle sue prime fasi ciò risulta, se non incredibile, altamente improbabile. Anche le varie inchieste “indipendenti” condotte dalla nostra stampa non sono riuscite a risalire oltre la presunta responsabilità di ufficiali di livello elevato della polizia di Giza.

Si è preteso inoltre – questo è il terzo punto – che la giustizia del Cairo si muovesse con una rapidità e un’efficacia che la nostra è ben lungi dall’avere ma che con innegabile faccia tosta pretendiamo regolarmente da quelle altrui. Vedasi a riguardo anche l’esemplare caso dei nostri due marinai incriminati in India. Si sono pesantemente sottovalutate le difficoltà di comunicazione tra un sistema giuridico come quello italiano, di matrice romano/napoleonica, e quello egiziano, coranico/anglosassone. Il mancato rispetto dei tempi che avevamo cercato di imporre alla controparte ci ha condotti a mettere anche pubblicamente in dubbio l’affidabilita e la sostanziale indipendenza dalla politica che invece sono universalmente riconosciute alla magistratura egiziana. Si è trattato di un errore che ha rischiato di incidere fortemente sulle indagini e che solo adesso che i dati richiesti iniziano ad affluire dall’Egitto viene piano piano corretto.

Quarta osservazione: ci siamo limitati a constatare quanto era successo e a cercare di scoprire chi ne fosse responsabile senza mai veramente approfondire perché fosse successo quanto era successo.

Non abbiamo mai cercato di chiarire la vera natura della missione che lo sventurato ricercatore svolgeva al Cairo. Abbiamo evitato di domandarci, quasi si trattasse di una cosa disonorevole, se Regeni fosse – coscientemente o meno – una spia dell’MI6, il servizio di spionaggio esterno del Regno Unito inviato ad approfondire i rapporti del potere egiziano con quei sindacati indipendenti che il Cairo considera pericolosi per la stabilità nazionale.

La reticenza e l’iniziale rifiuto di rispondere alle domande della nostra giustizia da parte della professoressa che fungeva da riferimento per la ricerca di Giulio presso l’Università di Cambridge (da sempre il maggior polo di reclutamento di MI5 ed MI6, i due principali servizi britannici) sembra confermare – ora che finalmente ci si è mossi in quella direzione, dopo aver perso parecchio tempo prezioso – la potenziale esistenza di responsabilità che il Regno Unito e l’Università non vorrebbero assumersi pubblicamente ma che potrebbero avere condizionato sin dall’inizio in maniera negativa l’intera vicenda.

Infine non è stata prestata sufficiente attenzione alle palesi incongruità dell’episodio. Il corpo di una vittima, che il locale regime avrebbe tutto l’interesse a far sparire, viene ritrovato, per di più proprio mentre è in corso una visita italiana di altissimo livello, ai margini di quella Cairo-Alessandria che è probabilmente la strada più trafficata di tutto l’Egitto. Cioè proprio dove si poteva essere ben sicuri che sarebbe stato rapidamente reperito: un’inspiegabile assurdità da parte di chi aveva a disposizione una buona porzione del Sahara per far eventualmente sparire ogni traccia di Regeni.

Altrettanto assurdo appare qualche giorno dopo il tentativo di imputare dell’omicidio alcuni delinquenti comuni, esibendo come prova documenti ed effetti del ricercatore reperiti secondo la versione ufficiale della polizia di Giza nell’abitazione degli assassini. È come se nel caso fossero state contemporaneamente in azione due squadre diverse, contrapposte l’una all’altra e con obiettivi differenti: la prima, responsabile della tortura e dell’uccisione di Giulio Regeni, intenzionata a far rapidamente sparire ogni prova del delitto; la seconda che invece tenta di portarlo con ogni mezzo alla attenzione della opinione pubblica mondiale.

A quale fine? La domanda può avere una risposta duplice.

Possiamo infatti trovarci di fronte alla rivalità feroce, e alla conseguente lotta intestina, fra due fazioni del regime in contrasto fra loro per il predominio. I naturali candidati all’identificazione sarebbero il ministero dell’Interno – da cui dipendono, oltre alla polizia, i servizi di informazioni generali (il Mukhabarat) – e il ministero della Difesa, che gestisce invece i servizi militari (Military Intelligence), cresciuti notevolmente di potere e competenze nell’era di al-Sisi. Non è forse un caso che nelle dichiarazioni rilasciate poco dopo l’inizio della vicenda il ministro dell’Interno egiziano abbia escluso ogni responsabilità, riferendosi però unicamente al suo ministero: una sfumatura che in ambito italiano non è stata adeguatamente recepita.

Oppure il tutto potrebbe essere opera di servizi stranieri intenzionati a guastare le relazioni particolarmente buone fra l’Italia e l’Egitto.

In vista di cosa? Di interessi commerciali molto forti, magari: il pensiero va al grande giacimento che l’Eni ha da qualche tempo scoperto in Egitto, nonché alla sinistra nomea delle cosiddette “sette sorelle ” del petrolio , colpevoli probabilmente di averci sottratto a suo tempo anche Enrico Mattei.

Oppure a considerazioni di interesse strategico: se allineati su una medesima visione politica, Egitto e Italia sarebbero probabilmente in condizione di ricondurre a unità la Libia. Un’ipotesi che darebbe molto fastidio a quei paesi arabi schierati per la partizione nonché ad alcuni paesi europei che ancora considerano questa parte del Nord Africa come una palestra per scontri di influenza di gusto postcoloniale.

Il risultato finale di questa serie di errori, valutazioni affrettate, provvedimenti inopportuni, dichiarazioni precipitose rilasciate sotto la spinta di un’opinione pubblica cui occorreva assolutamente fornire un colpevole – e subito! – è stato il crollo delle relazioni fra i due paesi e la perdita di una posizione di assoluto rilievo politico ed economico che l’Italia si era pazientemente costruita in Egitto in decenni di faticoso ed efficace lavoro.

Non curandoci di salvaguardare quel giusto equilibrio fra idealismo e realismo che dovrebbe essere l’essenza stessa della politica, ci siamo procurati un danno le cui dimensioni si cominciano appena a intravedere.

Il nostro rapporto con l’Egitto – per decenni la nostra controparte preferita sull’altra sponda del Mediterraneo –  è ora estremamente teso, quasi conflittuale. La situazione si è ulteriormente aggravata dopo che Roma ha deciso di cancellare il previsto passaggio all’Egitto di ricambi per vecchi aerei militari che noi non avevamo più in servizio ma che il Cairo mantiene in linea. Un atto puramente simbolico, considerato che tale cessione aveva carattere gratuito e non era indispensabile alla controparte, che può reperire gli stessi materiali presso molti altri fornitori. Il diniego è stato però fortemente pubblicizzato in Italia e ha suscitato di conseguenza le indignate reazioni dell’Egitto, che lo ha considerato come uno schiaffo diplomatico, per di più pubblicamente impartito.

Ciò che ci rimproverano maggiormente gli egiziani è di aver fortemente contribuito, con il nostro comportamento complessivo nel caso Regeni, a danneggiare agli occhi dell’opinione pubblica mondiale tanto l’immagine del paese quanto quella del suo presidente. Contribuendo ad accrescere per riflesso l’instabilità interna di un regime e di un paese che si considerano a rischio di destabilizzazione poiché in guerra contro l’estremismo islamico. Si tratta di una accusa cui è molto difficile ribattere, sia perché contiene elementi di verità, sia perché una risposta articolata implicherebbe valutazioni che risulterebbero certamente sgradite alla controparte. Sviandoci da quel realismo che ci impone di riconoscere come, pur essendo ben lontano dalla perfezione, il regime di al-Sisi sia indubbiamente il meglio che l’Egitto può offrire in questo momento.


Il deterioramento delle relazioni politiche ha poi la conseguenza già accennata di rendere impossibile la cooperazione per la riunificazione della Libia. Così noi continuiamo ad appoggiare Saraj e il governo di Tripoli, mentre il Cairo non lesina appoggio politico e militare al Genrale Haftar, braccio armato della fazione di Tobruk. Il conflitto si eternizza e una sua ricomposizione diviene sempre più improbabile.

Vi è inoltre da considerare come l’allontanamento dall’Italia abbia contribuito ad accelerare il ravvicinamento alla Russia dell’Egitto. Riavvicinamento sicuramente già in embrione ma che le reazioni nazionali sul caso Regeni, unite a quelle di un’Unione Europea da noi sollecitata, hanno accelerato.

È così di pochi giorni fa la notizia della partecipazione di un battaglione di paracadutisti russi a esercitazioni congiunte con le Forze Armate egiziane. Il terreno di esercitazione è stato probabilmente scelto con valenza simbolica: si tratta infatti dell’area di El-Alamein, che verrà interessata dalle manovre proprio nel periodo dell’anniversario della grande battaglia, allorché ufficiali di quasi tutti i paesi Nato affluiranno ai grandi Sacrari della zona per le celebrazioni. Forse si tratta di una coincidenza… ma non bisogna farci molto conto, considerato il modo in cui di norma gli arabi convogliano i loro messaggi.

Dal punto di vista economico, ci sono poi due punti da considerare. L’interscambio – eravamo tra i primi partner commerciali dell’Egitto, mentre ora i commerci languono – e l’importanza del Canale di Suez. Quest’ultimo è un passaggio obbligato delle nuove vie della seta che con un grandioso progetto su scala mondiale i cinesi vorrebbero riattivare e che dovrebbe avere come suoi estremi navali Tien Tsin (il porto di Pechino) e Venezia (e Trieste ? ndr.), con l’Adriatico destinato a essere la porta di ingresso dell’Europa. Un progetto realizzabile solo se la concordia regna fra tutti i pezzi contigui del lunghissimo domino.

Un accenno infine al problema delle migrazioni dal Nord-Africa verso l’Italia. Potrebbe divenire rapidamente ingestibile, se oltre a partire dalla Libia i barconi che trasportano i migranti potessero salpare senza intralcio anche dalle coste egiziane. O, peggio ancora, se il regime incoraggiasse l’emigrazione clandestina in un paese che soffre di povertà e di disoccupazione endemiche, con una popolazione – per grandissima parte giovane e pari a circa la metà dell’intero mondo arabo – concentrata nella sovraffollata area irrigata dal Nilo.

Un assaggio di questa potenziale catastrofe lo abbiamo avuto in estate, allorché i barconi egiziani si sono sommati a quelli libici, sia pure in numero molto ridotto rispetto alla potenzialità. Forse anche in questo caso si è trattato di un messaggio trasmessoci in maniera indiretta, nel consueto stile arabo!


È dunque opportuno, in conclusione, accettare tempi un po’ più lunghi di quelli che vorremmo per la soluzione del caso di Giulio Regeni, riprendendo nell’attesa una politica di giusto equilibrio. Che risulti molto meno condizionata da ondate di sentimento generate mediaticamente (vedi la Prima Pagina Gialla del Piccolo ! ndr.Clicca) e che tenga conto, pur nella salvaguardia dei principi e dei valori, degli interessi reali del paese. Che accetti, quando indispensabile, che se non si può avere di più conviene accontentarsi di ciò o di chi appaia in quel momento come il minore dei mali possibili. Che si muova con precauzione e si faccia guidare esclusivamente dalla ragione. Che sappia guardare lontano e programmare di conseguenza, senza pretendere soluzioni immediate con un tempismo magari condizionato da scadenze elettorali locali. Che rispetti sempre le controparti, tenendo conto che il loro modo di ragionare può essere diverso dal nostro e le loro azioni particolarmente difficili da comprendere.

È tempo insomma che la nostra politica internazionale cessi di suicidarsi, come ha fatto nella fase iniziale del caso Regeni, ritornando a essere quella grande politica che – purtroppo soltanto a volte – siamo stati capaci di esprimere.




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