RESTITUIRE TRIESTE AL FUTURO -

AUTONOMI DALL' ITALIA MA CONNESSI CON IL MONDO - RESTITUIRE TRIESTE ALLA MITTELEUROPA - RESTITUIRE TRIESTE AL SUO FUTURO: CENTRALE IN EUROPA INVECE CHE PERIFERICA IN ITALIA -

giovedì 9 novembre 2017

PORTO FRANCO TRIESTE: COME LE DOGANE E LA SOVRINTENDENZA ITALIANE HANNO IMPEDITO SVILUPPO PRODUTTIVO E MODERNIZZAZIONE DI PORTO VECCHIO FACENDOLO DIVENTARE UNA TOPAIA - NE PARLA PERFINO "IL PICCOLO" - E COME HANNO IMPEDITO FINORA L'UTILIZZO PRODUTTIVO E INDUSTRIALE DEI PUNTI FRANCHI ANCHE INTORNO AL PORTO NUOVO (con la complicità della classe politica e dirigente locale)

Dal momento che il tempo è galantuomo e che la verità prima o poi viene a galla, sul Piccolo del 9/11 troviamo un articolo che spiega come la Dogana italiana ha letteralmente sabotato l' utilizzo produttivo dei Punti Franchi respingendo, tra le altre, anche la richiesta della Seleco di insediarsi in Porto Vecchio, cosa che invece adesso sta avvenendo.
Tanto per rispondere a quelli che: "in Porto Vecchio da anni nessuno utilizza il Punto Franco che non serve a niente".


Un altro capitolo da affrontare sarà l' intervento paralizzante della Soprintendenza  del Ministero (belle arti & c.) che con il demenziale "vincolo architettonico" totale su esterni ed interni posto nel 2001, dal sottosegretario Vittorio Sgarbi, per evitare la ristrutturazione di alcuni vetusti magazzini, ha impedito ogni ammodernamento funzionale ad attività produttive in Porto Vecchio.
Per non parlare dell' attuale utilizzo vessatorio della "legge Galasso" sul paesaggio per creare continui ostacoli e problemi anche in Porto Nuovo e aree circostanti.


Porto Vecchio è diventato così l' attuale area degradata e tana di "pantigane" che solo l' utilizzo produttivo del Punto Franco può recuperare: come Seleco e Saipem dimostrano concretamente.

I vetusti magazzini vincolati potrebbero forse ora essere finalmente utilizzati per attività ad alta tecnologia, che pochi anni fa non esistevano ancora, ma il vincolo sarebbe comunque da togliere perchè comporta costi eccessivi di ristrutturazione mentre un utilizzo turistico di quell' area è pura fantasia di chi non conosce quel mercato: 32 milioni per restauri del magazzino 26 e adiacente "polo museale" non hanno creato un solo posto di lavoro o turista in più a tre anni dalla mitica "sdemanializzazione".


In un prossimo articolo di recupero della storia recente descriveremo come la sinistra triestina sia decaduta dalle proposte di legge per la Zona Franca del sen. Vittorio Vidali, sostenitore Porto Franco e autonomia perchè intelligente conoscitore di Trieste, alla "spiaggia di sabbia" con "teleferica per monte Grisa" del sen. Russo, passando per la sistematica denigrazione della funzione dei  Punti Franchi definiti "obsoleti e inutili" dai vari Rossetti e Pacorini (candidato sindaco). 

Lasciando così, colpevolmente, la gloriosa bandiera triestina del Porto Franco e dell' autonomia in preda alle strumentalizzazioni dei nazionalisti reazionari e municipalisti alla Camber: finchè un nuovo movimento indipendentista e autonomista è riemerso dagli anfratti carsici, cosa che periodicamente succede come sa chi conosce la nostra città e la sua storia.


Eppure per smentire questi sedicenti progressisti, diventati ormai neo-nazionalisti italiani col centralismo nel DNA, che pontificano rozzamente sull' "anacronismo dell' autonomia / indipendenza  nell' epoca della globalizzazione" e persino sull' inutilità delle Zone Franche, che stanno invece proliferando in tutto il mondo, basta leggere illustri studiosi di geopolitica e geoeconomia come Parag Khanna, Kenichi Ohmae o Saskia Sassen: per capire che il nuovo mondo passa attraverso la connessione funzionale di piccole aree autonome efficienti, specialmente se dotate di  ZES (zone economiche speciali) e non attraverso la sommatoria di pletorici Stati Nazione centralistici e burocratici in crisi strutturale ormai da decenni.
Tutte le esperienze di successo sono di piccole dimensioni e interconnesse globalmente: da Singapore ai 26 cantoni autonomi della confederazione svizzera, fino alle Città-Stato portuali autonome del Nord Europa come Amburgo (Stato della Repubblica Federale di Germania).

E l' indipendentismo triestino ha sempre voluto l' internazionalizzazione della città, come l' insistenza sull' uso di più lingue, sulle bandiere ONU e il rifiuto dei nazionalismi dimostra ampiamente a chi non è in malafede, non certamente la chiusura nella "piccola patria" isolata.


Oggi perfino Prodi si chiama fuori e dice
su "La Repubblica" che "L' Italia è al baratro": perchè Trieste dovrebbe gettarvisi dentro contenta, insieme al treno di Renzi?
                                                                          

"Il più potente impulso politico verso un mondo connesso è esattamente quello che indicherebbe la direzione contraria: il decentramento" - Parag Khanna "Connectography" (ed.italiana Fazi 2016).



Ecco l' articolo del Piccolo, da leggere e ricordare, che contiene le interviste a Stevanato, attualmente apprezzato consulente sulla portualità, e a Zanetti tuttora ricordato come uno dei migliori amministratori che Trieste abbia avuto in Provincia e al Porto:

Quando nel ’77 il no della Dogana impedì il primo sbarco di Sèleco
di Massimo Greco

«Stavolta alla Sèleco è andata liscia. Meglio così, finalmente tempi e mentalità sono cambiati. Ma quarant’anni fa le cose presero una piega differente e l’idea di assemblare televisori con il marchio Brionvega in Punto franco si rivelò inattuabile».
Danilo Stevanato è stato responsabile del marketing dell’Ente porto (Eapt) fino alla fine del decennio Novanta. In precedenza aveva lavorato nello staff di Michele Zanetti, che per oltre tredici anni aveva presieduto l’Eapt.
E Stevanato, che continua a lavorare come consulente, è una delle memorie storiche della portualità triestina, così rammenta quello che avvenne nell’ormai lontano 1977. «Sèleco - dice Stevanato - chiese di insediare in Punto franco, con le relative agevolazioni, una linea di assemblaggio di televisori, che portavano il prestigioso brand Brionvega, marchio di punta nel design “made in Italy”». Il DIBTTJT dell’apparecchio - ricorda ancora - veniva prodotto in Italia, mentre schede, tubo catodico e altri componenti erano importati dall’Estremo Oriente. La Sèleco era sorta nel 1965 a Vallenoncello, sobborgo di Pordenone, come una delle iniziative industriali lanciate da Lino Zanussi: negli anni ’70 aveva acquisito Brionvega, che, poco dopo il mancato sbarco puntofranchista, sarebbe stata ceduta al gruppo Formenti. Torniamo allora a Stevanato per il mesto epilogo della proposta giunta dalla Destra Tagliamento: «Fu l’amministrazione doganale - ricostruisce l’ex funzionario dell’Eapt - a stoppare l’operazione, poichè ritenne che quel tipo di assemblaggio fosse insufficiente per fregiarsi del “made in Italy” e per questo non potesse adire ai vantaggi del Punto franco».
E così l’antenato dell’attuale, accettato assemblaggio televisivo della rinata Sèleco al Magazzino 5 in Porto vecchio s’impantanò sulle rive del Noncello e non raggiunse mai le sponde adriatiche.
Non fu l’unico naufragio puntofranchista: «Lo stesso altolà doganale, per ragioni analoghe, colpì un progetto del gruppo tessile bergamasco Pezzoli, che poi realizzò lo stabilimento di Rabuiese». Giuslavorista, presidente democristiano della Provincia di Trieste, poi presidente dell’Eapt, Michele Zanetti ricorda bene quella stagione a base di “niet” doganali, che finivano con lo snervare i contenuti puntofranchisti. «Era difficile confrontarsi con una struttura doganale, che riteneva erroneamente come le competenze e le interpretazioni comunitarie superassero i trattati internazionali, che avevano chiuso la Prima e la Seconda guerra mondiale». «Intese - riprende Zanetti - che riconoscevano le caratteristiche e i vantaggi del Punto franco triestino. Ma Bruxelles non concedeva spazio alle situazioni particolari come la nostra». Zanetti era assertore di un utilizzo del Punto franco che non limitasse la sua operatività al godimento di determinate prerogative nell’importazione, ma che riuscisse a estendere i vantaggi anche alle produzioni industriali e alle attività finanziarie, «come l’offshore previsto dalla Legge 19/1991 sulle Aree di confine aveva previsto». Quel progetto di offshore sul quale molto s’impegnò un manager assicurativo del calibro di Alfonso Desiata.
Ma nei decenni ’70 e ’80 l’atteggiamento delle Dogane, nel chiaro ricordo di Zanetti, tendeva a essere «vessatorio, tradendo così quello che era lo spirito dei Punti franchi». Gli interventi dei funzionari erano spesso «invasivi, perchè piombavano anche negli hangar e nei magazzini, quindi fuori dal loro perimetro di azione, comportamenti che non erano accettabili».
Nonostante i casi negativi di Sèleco e Pezzoli, qualche impresa riuscì a insediarsi nell’area puntofranchista, godendone i privilegi: «Le scarpe Lucky Shoe, le camicie con il marchio Trieste Textil, le calze Bloch, gli accendini Ronson», elenca Zanetti. «Mentre l’amministrazione doganale tendeva a comprimere le attribuzioni del punto franco e nella stessa Trieste c’era chi non credeva più tanto ai vantaggi derivanti dal regime - conclude l’ex presidente - c’erano altre importanti realtà nazionali che ai punti franchi guardavano invece con interesse. Lo dimostrava il lavoro che Victor Uckmar (grande fiscalista di origini triestine ndr.) condusse per Genova». 





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