RESTITUIRE TRIESTE AL FUTURO -

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venerdì 6 gennaio 2017

LA GUERRA CIVILE IN TURCHIA RIGUARDA TUTTI NOI (SPECIALMENTE A TRIESTE DOVE LA TURCHIA E' MOLTO IMPORTANTE PER IL PORTO) - UN ARTICOLO DI LUCIO CARACCIOLO DIRETTORE DI LIMES


Nel Porto di Trieste non solo arrivano i traghetti Ro-Ro dell' Autostrada del Mare ma anche il Molo VI è controllato da operatori turchi (clicca QUI).

Dopo l’attentato di Smirne, in Anatolia è tutti contro tutti. Vittima delle sue stesse megalomanie e paranoie, Erdoğan ha infragilito lo Stato che dichiara di voler proteggere dai terroristi.
La Turchia è in guerra civile. Nemmeno troppo strisciante.
Già da trent’anni, salvo fragili tregue, il Sud-Est anatolico è destabilizzato dalla rivolta curda, guidata dal Pkk. Guerra a bassa intensità che ha provocato oltre 40 mila morti.
Ma negli ultimi tempi il campo dello scontro si è allargato al resto del paese, concentrandosi nelle grandi città, da Istanbul ad Ankara. Ieri è stata la volta di Smirne, capitale informale della “Turchia bianca” o “Euroturchia”, dove la penetrazione islamista è moderata e lo stile di vita molto più occidentale che nell’Anatolia profonda.

L’attacco al tribunale di Smirne è stato provvisoriamente attribuito al Pkk. Non certo un caso a sé, ma l’ultimo episodio di una sequenza di terrore che sta scuotendo la Turchia, danneggiandone profondamente l’economia (a partire dal turismo) e l’immagine globale.
Sono passati appena cinque giorni dalla strage del night club “Reina”, a Istanbul, attribuita allo Stato Islamico, a suggellare un 2016 particolarmente sanguinoso – oltre 2 mila morti – culminato nel fallito golpe del 15 luglio.
Quale che sia la matrice degli attentati in serie, la Turchia è impegnata in una guerra al terrorismo combattuta lungo due direttrici.


Sul fronte siro-iracheno, contro i curdi locali,
per impedire loro di saldarsi con i curdi anatolici – e di passaggio anche contro gli uomini del “califfo” al-Baghdadi.

E sul fronte domestico, infiammato dalle rappresaglie jihadiste e curde che hanno colpito a Istanbul e a Smirne, con l’opinione pubblica scossa perché colpita nel suo stile di vita.
Quel che è peggio, lo Stato turco sembra vacillare sotto tanta pressione. Alle porte dell’Unione Europea c’è un colosso di 75 milioni di anime – con in pancia oltre tre milioni di rifugiati siriani, iracheni e afghani – che sta sbandando. La sua sorte ci coinvolgerà direttamente.
Al vertice, un leader solitario e solipsistaRecep Tayyip Erdoğan, sostenuto dalla maggioranza dei turchi, sta per varare una riforma costituzionale di taglio ultrapresidenziale.
In primavera, Erdoğan vorrebbe vedere consacrato per referendum il suo rango di presidente-sultano. Nel corso di quest’anno gli elettori saranno forse chiamati a un secondo plebiscito, stavolta per opporre un “no” forte e definitivo all’ingresso nell’Unione Europea: “Questo popolo decide da solo, e da solo taglierà il suo cordone ombelicale” – parola di presidente.

Sarebbe sbagliato concentrarsi solo sulla figura dell’ondivago leader che domina la scena politica da un quindicennio. In gioco è il futuro di un paese chiave che rischia di essere risucchiato nella mischia geopolitica mediorientale e di perdere contatto con l’Occidente, pur restando membro della Nato.
Nei palazzi di Ankara si discetta anzi del ruolo della Cia nella strategia di destabilizzazione del paese, di cui gli attacchi di Istanbul e Smirne sarebbero tappe molto provvisorie. E si rimarca lo scarso sostegno Usa alle campagne militari turche in Siria e in Iraq, punendo la Turchia per il recente avvicinamento alla Russia.
In questo clima giunge la velata minaccia del governo turco di chiudere la base Nato di Incirlik, che ospita 90 testate atomiche americane. Anche se fosse pura retorica, un sintomo della crisi nei rapporti fra Ankara e Washington alla vigilia dell’insediamento di Donald Trump.
Il primo nemico di Erdoğan, secondo questa lettura, resta il “terrorista” Fethullah Gülen, l’imam che dal suo eremo in Pennsylvania protetto dall’intelligence americana ispirerebbe la strategia della tensione, dopo aver malamente progettato il golpe del 15 luglio.
Risultato: per liquidare l’organizzazione di Gülen, Erdoğan ha fatto il vuoto nello Stato profondo – esercito, polizia, magistratura, intelligence – a caccia dei suoi complici presunti o effettivi. Le Forze armate, orgoglio della Turchia, seconde solo a quelle americane in ambito atlantico, sono indebolite nei mezzi, nella guida e nel morale proprio mentre si chiede loro uno sforzo speciale per combattere le molteplici minacce alla sicurezza nazionale.
La cura si sta rivelando peggio della malattia. Per sradicare i gulenisti il presidente ha infragilito lo Stato che dichiara di voler proteggere dai terroristi.
Questo capitolo decisivo per il futuro della Turchia è solo alle prime righe.



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