RESTITUIRE TRIESTE AL FUTURO -

AUTONOMI DALL' ITALIA MA CONNESSI CON IL MONDO - RESTITUIRE TRIESTE ALLA MITTELEUROPA - RESTITUIRE TRIESTE AL SUO FUTURO: CENTRALE IN EUROPA INVECE CHE PERIFERICA IN ITALIA -

venerdì 7 giugno 2019

D'ANNUNZIO: DA DIETRO LE LINEE ORDINAVA DI BOMBARDARE I SOLDATI ITALIANI COLPEVOLI DI ESSERE STATI FATTI PRIGIONIERI IN UNA AZIONE TOTALMENTE FOLLE DA LUI VOLUTA - DUINO 28 MAGGIO 1917 - ALTRO CHE STATUA !


Per illustrare le gesta del "Vate" D' Annunzio, cui la Giunta Comunale Dipiazza ha deciso di dedicare una statua, ricordiamo l' episodio bellico che lo ha visto protagonista nei pressi di Trieste: precisamente a S. Giovanni di Duino il 28 maggio 1917 in cui si è distinto non solo per predisporre un' azione folle e inutile con cui mandò i soldati italiani, suoi sottoposti, al macello ma addirittura per aver ordinato all' artiglieria di sparare sui poveri superstiti fatti prigionieri dagli austriaci.

D'Annunzio infatti definiva i prigionieri "Peccatori contro la Patria, lo Spirito e il Cielo" solo perchè erano sopravvissuti e fu protagonista della propaganda contro i prigionieri di guerra bollati come codardi o disertori, soprattutto quelli della disfatta di Caporetto causata dall' insipienza dei Comandi, crociata arrivata persino al divieto di collette di beneficenza a loro favore.

L' episodio di Duino fu tra i più ignobili di quella carneficina che fu l' Inutile Strage ed è riportato sulla base di documenti dallo storico di Oxford Mark Thompson nel suo famoso libro "La Guerra Bianca" edito in traduzione italiana dalla autorevole casa editrice "Il Saggiatore" nel 2014.
Non dimentichiamo che la Grande Guerra, ardentemente voluta da D'Annunzio, provocò 651.000 morti  tra i militari italiani e 589.000 vittime fra i civili italiani, senza contare i feriti e gli invalidi, ed ebbe tanto "consenso" popolare che i disertori italiani furono 535.000, dato sempre tenuto in ombra.

Qualcuno si domanda perchè occuparsi ancora di quelle vicende vecchie e mai digerite: giusto! Ma i 381.190 euro di soldi pubblici (nostri) stanziati per la mostra e i 20.000 euro per la statua del pescarese D'Annunzio nella centralissima piazza della Borsa della nostra città cui fu estraneo, sono attuali e concreti, come la pesante recrudescenza di propaganda nazionalista e guerrafondaia che Trieste subisce dal 2014, centenario dell' inizio della Grande Guerra.  

Tutta roba senza alcuna utilità economica o civile per la città.

Ecco il testo del libro, pag. 269 e seguenti e pag.277 


Diverse altre pagine in altri capitoli sono dedicate alle gesta puramente propagandiste e teatrali di questo individuo, esibizionista dai costumi dissoluti, nazionalista esaltato ed odiatissimo dalla truppa che, come leggiamo sotto, voleva addirittura linciarlo:



"Una delle ultime operazioni della Decima battaglia ebbe luogo il 28 maggio, nei pressi di un minuscolo abitato chiamato San Giovanni (di Duino ndr), lungo la strada costiera per Trieste. Oggi il tutto si riduce a una chiesa in un boschetto d' alberi, poche case e un monumento ai caduti (i lupi che si vedono dalla strada ndr).
Basta distrarsi un attimo per passarci accanto senza accorgersene. 
Qualche metro sotto la strada, il più breve fiume d’ Italia scaturisce da una cavità nella roccia calcarea: il suo nome è Timavo e il sito corso è verde, vitreo, gelido, ampio una trentina di metri, lungo appena qualche chilometro ma profondo.
Dopo il 24 maggio, l’avanzata si era bloccata proprio qui. All’interno, gli austriaci resistevano saldamente sul massiccio dell' Hermada. Più avanti, il cammino era bloccato dalla Quota 28, un modesto rilievo costiero coperto da un rado boschetto sul cucuzzolo. Un battaglione del 77 Reggimento, i «Lupi di Toscana" avrebbe dovuto attraversare il fiume su passerelle lanciate proprio sotto la Quota 28 e conquistarla. Un distaccamento avrebbe poi percorso i due chilometri di terreno basso e aperto fino al villaggio di Duino, arroccato sulle falesie, e avrebbe issato un’enorme bandiera italiana sui contrafforti del castello. Il morale degli italiani di Trieste si sarebbe sollevato mentre quello degli austriaci sarebbe crollato.
Le prospettive di successo erano  praticamente nulle. 
Il terreno, sull’una e sull’altra riva del Timavo, era orribilmente paludoso, senza alberi che potessero offrire copertura. Sarebbe stato impossibile infiltrare abbastanza soldati su una passarella, sotto il fuoco nemico, con sufficiente velocità da raggiungere l’obiettivo. Anche se, per un doppio miracolo, gli italiani fossero riusciti a conquistare la collina e a raggiungere il castello di Duino, la loro bandiera sarebbe risultata invisibile da Trieste, distante quasi venti chilometri.
Questo ridicolo piano era stato in parte concepito da un cinquantaquattrenne capitano dei Lancieri di Novara: niente meno che Gabriele D’Annunzio, vate d’Italia e decadente a tutto tondo. 
Condividendo la fascinazione dei futuristi per
gli aerei, D’Annunzio compiva arditi voli sui territori austriaci. Inoltre sfruttava gli eventi per farsi pubblicità personale, chiedendo medaglie a destra e a manca.
Ammirava Cadorna e componeva odi in suo onore. 
A livello non ufficiale, molti nell’esercito lo trovavano comico, per non dire esecrabile.
In quella operazione, D’Annunzio era aiutante del comandante del battaglione, un certo maggiore Randaccio. 
Il diario del poeta è denso di presagi: il tempo è coperto e minaccia pioggia, gli uomini sono esausti «dopo ventiquattro giorni di sofferenze e combattimenti». Solo una delle passerelle previste è stata realizzata: una fila di tavole larghe 40 centimetri, fissate a bidoni di olio vuoti, senza un tientibene, né un cavo a cui aggrapparsi.
Gli osservatori hanno individuato filo spinato e trappole sull’obiettivo. Le «enormi difficoltà" hanno scoraggiato Randaccio. «Non sembra avere troppa fede. Io Io sostengo.» 
Le  voci secondo cui l’operazione avrebbe potuto essere rinviata inducono  D’Annunzio a precipitarsi al Comando supremo, dove ottiene immediatamente udienza dal Duca d’Aosta e viene autorizzato a procedere.
Tornato al Timavo, scorge il parafulmini sui castello di Duino. Il fiume lo affascina e già si eccita al pensiero di vedere i soldati bagnarsi là dove Castore o Polluce avevano un tempo abbeverato i loro bianchi cavalli.
A mezzanotte meno un quarto viene svegliato dal dolcissimo sogno del seno della sua amante (una signora triestina, che risiede a Venezia con il marito compiacente).
Partono in fila indiana verso la riva del fiume, il poeta porta la bandiera.
Un gruppetto di uomini riesce a percorrere la passerella sotto il fuoco nemico e alcuni soldati riescono a raggiungere la sommità della collina, senza però assicurarsene il controllo. 
Randaccio manda a chiamare i rinforzi che, come sempre, scarseggiano.
I mitraglieri austriaci nascosti sui fianco della collina aprono un fuoco d’infilata sulla riva del fiume e sulla passerella.
Quando le truppe sulla riva opposta del fiume vedono quello che li aspetta, quaranta soldati si ammutinano.
Legano camicie bianche alle baionette e rispondono urlando agli ufficiali che li chiamano codardi: «Non vogliamo essere 
mandati al macello! »
«I soldati prigionieri dicono che si sta bene in Austria!».
Anche gli uomini che hanno raggiunto la sommità della collina si stanno arrendendo. Randaccio ordina una ritirata. Gli uomini arretrano disordinatamente sul ponte di tavole, sotto il fuoco nemico, alcuni cadono in acqua. 
D’Annunzio, che evidentemente non ha attraversato, anche se il bollettino ufficiale riferirà altrimenti, li aiuta a risalire sulla riva. Randaccio è gravemente ferito: il poeta posa la sua testa sanguinante sulla bandiera.
Le facce ostili dei superstiti inducono D’Annunzio a domandarsi se quei «traditori» gli spareranno. Confortato dalla certezza che qualsiasi lama o pallottola italiana si trasformerà in diamante nel momento in cui gli penetrerà il cuore o la fronte, è deciso a punire i rinnegati.
Convinto che l’obiettivo avrebbe potuto essere raggiunto se solo «un piccolo gruppo di veri uomini» vi fosse arrivato, ordina alla batteria più vicina di fare fuoco sulla colonna di prigionieri italiani oltre il fiume. Più tardi annoterà che «la battaglia lascia nell’uomo sensuale una malinconia simile a quella che segue il grande piacere».
La fanteria si sente triste anch’essa, anche se per altri motivi.
L’impatto di questo fiasco sul loro morale può essere misurato sul fatto che ottocento tra ufficiali e soldati della Brigata Puglie si arrenderanno sul Timavo più tardi, il giorno dopo, il 29 consegnandosi al nemico con le armi e gli equipaggiamenti.
Solo D’Annunzio trasse profitto dall’ operazione, dissennata anche secondo gli standard di Cadorna: una versione in miniatura e un atto di accusa delle grandi offensive costate già mezzo milione di uomini. 
Perché D’Annunzio era un propagandista più che un soldato e la propaganda è un regno in cui il gesto è sostanza e le parole sono fatti. L’operazione del Timavo era un gesto che, nella sua visione dannunziana era brillantemente riuscito e sarebbe culminato non sul Timavo bensì accanto alla tomba di Randaccio ad Aquileia, dove il poeta tenne un’orazione che lanciò la carriera postuma del maggiore nella sfera della leggenda. 
Il duca d'Aosta fece distribuire copie del discorso agli uomini della Terza armata.
Randaccio corrispondeva ai criteri di eroismo del poeta: aveva condotto un’azione «eroica», era morto nel tentativo di compierla e affidava la sua trasfigurazione al poeta.
Sul letto di morte Randaccio pregò che gli venisse data la capsula di veleno che il poeta, come sapeva, portava sempre con se in battaglia. La chiese per tre volte e per tre volte, biblicamente, gli venne rifiutata. Perchè?
D’Annunzio lo spiegò nella sua orazione funebre: «Era necessario che soffrisse affinchè la sua vita potesse diventare sublime nell’immortalità della morte».
La leggenda richiedeva altresì un’ultima, crudele illusione: D’Annunzio giurò al morto che la Quota 28 era stata conquistata e tenuta, facendo di Randaccio «il vincitore».
Per un perdente, morire in battaglia era semplicemente banale: per 
un vincitore, invece, era «splendido». Riferì le sue ultime parole che, come era inevitabile, erano state «Viva l’Italia !».
L’azione fu riferita con trasporto nel bollettino ufficiale che dichiarava che «i pochi ardimentosi" avevano ricevuto l’ordine di ritirarsi proprio quando stavano per raggiungere il loro obiettivo, andando incontro a una «violenta tempesta di proiettili».
Sorprendentemente i biografi di D’Annunzio non danno rilievo a questo episodio, neppure alla spacconata di voler sparare ai propri soldati. Forse sospettavano una sua millanteria, anche se aveva sia il grado, sia la dissolutezza necessaria per impartire quegli ordini. Inoltre questo sarebbe stato perfettamente in linea con la concezione della disciplina militare caldeggiata da Cadorna.
Forse inventò la scena sul letto di morte di Randaccio. Quello che non falsificò fu l’ insensato massacro dei soldati del 77° Fanteria.
Eppure l’irresponsabilità del poeta impallidisce accanto a quella del duca d’Aosta e del Comando supremo, sempre pronti a lasciarsi sedurre dal carisma, che si trattasse del roboante vitalismo di un Capello o della vacuità adulatrice di un D’Annunzio.

Sadismo mistico  (pag.277)
La giustizia sommaria nell’esercito di Cadorna.

Nel luglio 1917 la Brigata Catanzaro era stremata dalla stanchezza.
I contadini 
meridionali che avevano formato il 141° e 112° Fanteria avevano combattuto sul Carso e sull’altopiano di Asiago per due anni, subendo pesanti perdite. Molti soldati non avevano più avuto neppure la licenza ordinaria dall’inverno del 1915-1916. Il vitto era scarso e scadente. Le sanguinose perdite sui monte Ermada alla fine della Decima battaglia avevano lasciato i superstiti depressi, con un disperato bisogno di riposo.
Dopo più di quaranta giorni passati in linea, la Brigata ebbe il cambio e fu inviata al paese di Santa Maria la Longa (UD), una base logistica della Terza armata.
Era corsa voce che la Catanzaro sarebbe stata inviata in Carnia o sulle Dolomiti, zone relativamente tranquille dopo il Carso. Invece, dopo pochi giorni, le venne ordinato di ritornare sull’Ermada. 
I furibondi mugugni nelle baracche si trasformarono in un’aperta rivolta, che coinvolse entrambi i reggimenti ma si incentrò sulla 6’ Compagnia del 142°. Vennero esplosi dei colpi. 
L’ammutinamento venne arginato dall’ intervento della cavalleria, con i blindati e l’artiglieria leggera da campagna, inviata dal quartier generale della Terza armata. 
Anche così, però, morirono undici soldati, tra cui due ufficiali. Un terzo ufficiale riuscì fortunosamente a scampare: infatti secondo una versione degli avvenimenti, una banda di ribelli si era recata in una villa vicina, dove pensavano si trovasse Gabriele D’Annunzio, gridando: «Morte a D’Annunzio!».
Per sua fortuna, il poeta alloggiava in un campo d’aviazione vicino, perché si stava preparando a un’incursione di bombardamento sull’Istria.

Il giorno seguente, ventotto soldati furono accusati di ribellione e vennero fucilati sul posto. Di questi  dodici vennero scelti a caso all' interno della 6° compagnia. Altri 123 vennero mandati ai tribunali militari. Non era il primo scontro della Brigata con la giustizia militare, ma fu di gran lunga il peggiore. Gli storici descrivono l' episodio di Santa Maria La Longa come l' unico vero ammutinamento verificatosi nell' esercito italiano in tutto il corso della guerra.
D'Annunzio si affrettò a ritornare per assistere alle esecuzioni.
Gli uomini furono allineati contro il muro di un cimitero dietro un campo di grano. Presso il muro crescevano le ortiche. "Un caldo opprimente. Le allodole cantavano". Gli uomini bassi, con la pelle scura, venivano dalla Campania, dalla Calabria, dalla Puglia e dalla Sicilia. Intonarono, ad una voce, un inno o una preghiera. Il poeta distolse lo sguardo mentre i loro corpi si afflosciavano al suolo.
I suoi appunti non riportano alcuna reazione emotiva, bensi solo particolari verificatisi dopo l' avvenimento: «Sotto le foglie vidi i berretti, gli elmetti, i brani delle cervella coperti dalle mosche a nuvoli, le righe del sangue già risecco tra gleba e gleba».


P.S. Quando passiamo per la strada che va da Duino a Monfalcone e all' altezza del Timavo vediamo il monumento con i lupi di bronzo e le targhe grondanti di retorica patriottarda, pensiamo ai poveri soldati mandati al macello da criminali e psicopatici (Ndr.).



COSTUI E' ADDITATO AD ESEMPIO CON UN MONUMENTO IN UNA CITTA' CHE NON FU MAI SUA.



2 commenti:

  1. https://www.change.org/p/comune-di-trieste-no-al-munumento-di-d-annunzio-a-trieste?recruiter=false&utm_source=share_petition&utm_medium=facebook&utm_campaign=psf_combo_share_initial&utm_term=petition_dashboard&recruited_by_id=d2dc2ff0-8ab5-11e9-af8e-1b6521045fec&share_bandit_exp=initial-16017483-it-IT&share_bandit_var=v3

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  2. Per quel i vol farghe la statua, i parla de Patria e Valori (me raccomando con la maiuscola!) e poi i xe i primi traditori della Patria e de qualunque Valor che se possi definir tale. Xe questi i personaggi in cui i se riconossi.

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