RESTITUIRE TRIESTE AL FUTURO -

AUTONOMI DALL' ITALIA MA CONNESSI CON IL MONDO - RESTITUIRE TRIESTE ALLA MITTELEUROPA - RESTITUIRE TRIESTE AL SUO FUTURO: CENTRALE IN EUROPA INVECE CHE PERIFERICA IN ITALIA -

domenica 13 aprile 2025

ODESSA E TRIESTE PORTI FRANCHI SOTTO TUTELA ONU? UNO SCENARIO PER LA PACE E LA SICUREZZA EUROPEA

 


Articolo di Paolo Deganutti originariamente pubblicato su Pluralia in italiano, inglese, cinese e russo
(clicca QUI)

Dalla proposta del presidente Putin di un’amministrazione temporanea ONU in Ucraina alla storia dimenticata del Porto Franco di Trieste: perché il controllo internazionale dei porti strategici potrebbe tornare d'attualità nelle trattative sulla pace in Ucraina e sull’architettura di sicurezza in Europa.


Esaminiamo un’ipotesi di scenario nel contesto di rapidissima evoluzione (secondo alcuni di rivoluzione) geopolitica in atto mentre si realizzano situazioni impensabili solo pochi mesi prima: dalle rivendicazioni territoriali americane su Groenlandia e Panama alla guerra commerciale dei dazi interna all’ “Occidente Collettivo”, fino alla Germania che improvvisamente toglie dalla Costituzione il dogma totemico del “pareggio di bilancio” per potersi riarmare a debito... 

 Il ripotenziamento del ruolo dell’ONU.

 Un'amministrazione temporanea sotto il mandato delle Nazioni Unite che prepari l’Ucraina alle elezioni. Questa è stata la proposta avanzata dal presidente russo, Vladimir Putin, durante la visita nella base di sottomarini nucleari di Murmansk, lo scorso 28 marzo (Clicca QUI). Solo fantasie infondate e propaganda come si legge sulla nostra stampa?

In realtà si tratta di una posizione coerente con l’intenzione di rilanciare e valorizzare le istituzioni di regolazione internazionale multilaterale espressa anche dalla Cina e dai Paesi del Sud Globale, mentre gli Stati Uniti e Israele hanno notoriamente assunto posizioni delegittimanti nei confronti dell’ONU e di altri organismi internazionali.

La proposta del leader russo ha dei precedenti storici non remoti: la Nuova Guinea nel 1962, la Cambogia nel 1992, Timor Est nel 1999.

Nei Balcani Occidentali a noi molto vicini, dopo gli accordi di Dayton e l'accordo di Erdut tra il governo croato e la minoranza serba, le regioni di Slavonia, Baranja e Sirmia vennero poste nel 1996 sotto la sovranità dell'ONU per poi essere reintegrate nella Croazia il 15 gennaio 1998.

 Far riferimento a un ripotenziamento del ruolo dell’ONU per arrivare non solo alla pace in Ucraina ma anche a una nuova architettura della sicurezza del continente che la possa mantenere, è vista positivamente in una città portuale strategica come Trieste. Qui spesso si vedono iniziative e manifestazioni popolari dove viene sventolato il vessillo blu dell’ ONU. E’ un esito del fatto che la città è stata dal 1945 al 1954 Territorio Libero di Trieste sotto l’egida dell’ONU, mentre fin dal Trattato di Pace di Parigi del 1947 il suo porto ha lo status di “Porto Franco Internazionale essendo snodo logistico tra l'Europa centrale e orientale e il Mediterraneo e le coste orientali dell’Eurasia.

In questa situazione particolare è nato l’auspicio che la trattativa in corso tra Stati Uniti e Russia consideri l’opportunità offerta dall’ internazionalizzazione dei porti strategici, anche per superare le difficoltà negoziali che possono presentarsi discutendo di queste infrastrutture.

L'internazionalizzazione dei porti strategici è un'opzione che può essere considerata in contesti di conflitto e di forte riassestamento geopolitico globale come quello attuale.

L'ONU potrebbe svolgere un ruolo chiave nel garantire la stabilità e la libertà di navigazione e di commercio. E nel garantire che infrastrutture indispensabili per il commercio globale continuino a svolgere la loro funzione a favore dell’intera comunità internazionale senza discriminazioni.

Internazionalizzazione di Odessa, porto gemello di Trieste

Il pensiero va a Odessa, essenziale per l’approvvigionamento alimentare di vaste aree del globo. La sua posizione nel Mar Nero la rende un porto strategico dal punto di vista geopolitico e militare. E’ difficile pensare che la flotta russa nel Mar Nero possa dirsi sicura nella sua storica base di Sebastopoli fintanto che Odessa resta sotto l’esclusivo controllo ucraino e occidentale.

La storia di Odessa la lega al Porto Franco di Trieste: fondata nel 1794, per volere della zarina Caterina la Grande, in un territorio sottratto dall’Impero Russo agli Ottomani due anni prima, Odessa divenne un porto franco nel 1819.

 Ebbe subito intensi scambi con Trieste che era già Porto Franco da un secolo per decreto dell’Imperatore Carlo VI d’Asburgo.

Ne scriveva Karl Marx in un articolo del 1848 sul New York Tribune: “Trieste allacciava il suo destino con la stella sorgente di Odessa, e al principio del secolo XIX, escludeva la rivale Venezia dal commercio mediterraneo dei cereali.”
“ La prosperità di Trieste deriva dalle energie produttive e dei trasporti in quel gran complesso di paesi che sta nel dominio dell’Austria”.

        Infatti il Porto Franco di Trieste si sviluppò per merito di Maria Teresa d’Austria sino a divenire il Porto dell’Impero Austroungarico che rappresentava il più grande mercato unificato europeo dell’ epoca e cui, fin dal 1855, era collegato con un’ avanguardistica ed efficiente rete ferroviaria.

        Tanto stretti erano i rapporti tra Trieste e Odessa che la splendida scalinata monumentale della città sul Mar Nero era stata realizzata con i “masegni” di pietra arenaria provenienti dalle cave triestine.

            Su queste pietre furono girate nel 1925 le scene più famose del


film 
"La corazzata Potëmkin" di Sergej Michajlovič Ėjzenštejn: quelle dell'attacco alla folla inerme da parte dei cosacchi dello zar. 
Celebre è la sequenza della carrozzina, spinta da una madre appena fucilata, che rotola giù per la scalinata.


         

 Dall’attuale negoziato per la pace tra Russia e Stati Uniti potrebbe scaturire, come eventuale mediazione, il “Porto Franco Internazionale di Odessa” sotto la tutela dell’ ONU.

 Preservare il ruolo commerciale internazionale di Trieste

 Per quanto riguarda il porto di Trieste, nel quadro di un negoziato complessivo sulla sicurezza, andrebbe sottratto al rischio di militarizzazione Nato,  che ne vanificherebbe la natura di Porto Franco aperto a tutti. Un rischio concreto di cui abbiamo parlato su Pluralia in precedenti articoli  (Clicca Qui1Qui2Qui3 e Qui4) e di cui parla ripetutamente anche la rivista di geopolitica Limes. Temibile eventualità ribadita dalle stupefacenti parole del Presidente della Camera di Commercio di Trieste e Gorizia, Antonio Paoletti, pronunciate in un convegno pubblico sul porto il 24 febbraio scorso e ribadito nel comunicato di Confcommercio di cui è presidente: “Sarebbe auspicabile" che il Porto di Trieste "diventasse una base Nato essendo posto in una regione cruciale per il contenimento cinese"(Clicca QUI)Dunque anche nelle istituzioni c’è chi lavora perchè Trieste da Porto Franco votato allo sviluppo del commercio internazionale si trasformi in uno strumento di guerra almeno commerciale contro una parte rilevante del mondo.

Infatti il porto di Trieste lavora al 90% con l’estero, essendo un gateway dei traffici da e per l’Europa centrale e orientale che utilizza largamente le ferrovie, grazie ai vecchi collegamenti ereditati dalle ferrovie austriache.

L’Ungheria vi sta costruendo un importante terminal che dal 2028 diventerà il suo sbocco al mare. Il terminal utilizza lo speciale status di extraterritorialità doganale che lo pone fuori dalla “giurisdizione” doganale dell’UE e dell’ Italia. La Guardia di Finanza non può entrare: caratteristica unica del Porto Franco triestino. Di questo gli ungheresi sono entusiasti e parlano di “evento storico perché riporta l’Ungheria sul mare dopo 100 anni” (Clicca QUI).

 Dal porto giuliano parte anche l’oleodotto transalpino Tal/Siot che da cinquant’anni pompa petrolio greggio dalle petroliere fino a Ingolstadt in Baviera, fornendo il 40% del fabbisogno petrolifero della Germania (il 100% della Baviera e del Baden-Württemberg), il 90% dell’Austria e il 100% della Repubblica Ceca.

La strategicità anche militare di Trieste è fuori discussione ed è confermata dalla grande attenzione che una rivista di geopolitica come Limes le dedica ripetutamente (Clicca QUI1 e QUI2) insieme alle riviste americane Atlantic Council (QUI) e The National Interest (QUI)





Vedi  la recente mappa di Limes dove si evidenzia Trieste al vertice di un triangolo militare NATO con base sull’ Istmo d’ Europa, finalizzato al contrasto della Russia.
Clicca QUI per il Video

 


 





Il suo stato giuridico attuale è molto particolare e poco noto in Italia e deriva dal Memorandum di Londra del 1954 (clicca QUI) che non aveva rango di Trattato Internazionale. Firmato da UK, USA, Jugoslavia e Italia, vi si conveniva che l’Amministrazione Civile del Territorio Libero di Trieste (TLT) venisse trasferita dal Governo Militare Alleato (GMA) al Governo Italiano. Il successivo Trattato di Osimo del 1975 (clicca QUI) era solo bilaterale, tra Italia e la defunta Jugoslavia, e serviva solo alla reciproca definizione dei confini.

 Tuttavia il governo Italiano non ha mai dimostrato interesse allo sviluppo del Porto Franco giuliano di cui anzi in 70 anni non ha implementato tutte le potenzialità, in particolare quelle riguardanti la produzione industriale in regime di extradoganalità.

Il TLT, demilitarizzato e neutrale sotto controllo dell’ONU, fu istituito dall’art.21 del Trattato di Pace con l'Italia, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947 (clicca QUI) sottoscritto da 21 potenze tra cui Russia e Cina, che stabiliva:  
        -riconoscimento del TLT da parte delle Potenze Alleate e Associate e dell'Italia;
        -garanzia dell'integrità e dell'indipendenza del TLT da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite;
        - cessazione della sovranità italiana sul territorio designato, in quanto paese sconfitto;
        - istituzione di un regime provvisorio di governo (GMA), in attesa della nomina di un Governatore da parte del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, dove la questione restò nell’ Ordine del Giorno ufficiale fino all'8 gennaio 1978(NOTA 1)

  Di conseguenza, la situazione giuridica di Trieste può evolvere, nel pieno rispetto del diritto internazionale, in una nuova internazionalizzazione sotto l’egida ONU. Teoricamente basterebbe che la nomina del Governatore del Territorio Libero venisse posta nuovamente all’Ordine del Giorno del Consiglio di Sicurezza per iniziativa di uno stato membro del medesimo. Facendo così valere il fatto incontrovertibile che un Trattato di Pace firmato da numerose potenze è fonte primaria di diritto internazionale, prevalente su eventuali accordi successivi tra solo due parti.

 Sono cose che possono succedere nell’ambito di ribaltoni geopolitici come quello in atto e di ridefinizione degli assetti mondiali. Certamente preferibili all’instabilità dovuta allo sviluppo di infrastrutture militari, gestite dalla Nato o da coalizioni di “volenterosi” velleitari, come quella che vorrebbe Trieste in funzione di sostegno logistico e operativo al fianco Est ella Nato, o Scudo Europeo per la Democrazia che dir si voglia.

Diversi paesi, per non parlare della popolazione locale, avrebbero interesse a che la situazione del Porto Franco Internazionale di Trieste fosse sottratta a rischi militari e che le prerogative anche industriali del Porto Franco venissero finalmente sviluppate: dai paesi mitteleuropei a quelli eurasiatici, alla Cina (che progettava di dotarlo di un terminal della Via della Seta poi bloccato per intervento americano), alla Turchia che utilizza i vantaggi del Porto Franco per indirizzarvi il 70% delle sue esportazioni.

In particolare ne sarebbero tutelate la funzione di Porto Franco aperto all’intera comunità internazionale, senza ingerenze militari, e la funzione storica di collegamento marittimo / ferroviario fra la parte orientale e occidentale del grande continente eurasiatico, come previsto dai Trattati internazionali. 

Internazionalizzazione dei porti strategici come strumento di stabilità e pace. 

In un’architettura di sicurezza europea volta alla pace e alla stabilità sarebbe un vantaggio porre sotto controllo internazionale queste infrastrutture strategiche, o quantomeno discuterne apertamente ad alto livello e senza pregiudizi.

Del resto è proprio in epoche di dazi, guerre guerreggiate o commerciali che si manifesta la necessità di Porti e Zone Franche, utili a tutti e dove poter continuare gli scambi per tutelare il commercio globale.

Anche se questo scenario oggi può sembrare remoto, in un contesto di radicale riassetto geopolitico ricco di imprevisti come quello attuale è necessario elaborare scenari e nulla può essere escluso a priori.

Lo stesso caso di internazionalizzazione del territorio e del porto di Trieste dopo la 2° Guerra Mondiale dimostra che durante transizioni sistemiche simili soluzioni possono riemergere con il consenso delle grandi potenze e diventare un utile strumento di risoluzione dei conflitti.


Paolo Deganutti

 

NOTA 1)
Mentre la stampa italiana nell’ottobre 1954 aveva generalmente toni trionfalisti sul “Ritorno di Trieste all’Italia” la stampa estera era invece esplicita sul fatto che non si trattava di piena sovranità italiana su Trieste:

A) Le Monde (Parigi, 9 ottobre 1954)

Titolo"Trieste: un règlement provisoire sous l'égide de l'ONU"
-“Trieste: una soluzione provvisoria sotto l'egida dell'Onu”
Sorrotitolo:"Le Statut international de 1947 n'est pas abrogé. L'Italie administre, mais ne possède pas."
-"Il trattato internazionale del 1947 non è abrogato. L'Italia amministra ma non possiede."

B) The New York Times (6 ottobre 1954)

Titolo"Italy Gets Trieste, But UN Role Remains"
-“L'Italia ottiene Trieste, ma il ruolo dell'ONU resta”
Sottotitolo:
"The transfer of Zone A to Italy does not repeal the UN Security Council's primary responsibility under Resolution 16. Legal ambiguities persist." -“Il trasferimento della Zona A all'Italia non abroga la responsabilità primaria del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ai sensi della risoluzione 16. Persistono ambiguità giuridiche."

Qualche rara eccezione si trova anche sui giornali italiani:

C)  Il Giorno (Milano, 26 ottobre 1954)

Titolo"Trieste è italiana, ma l'ONU resta garante"
Sottotitolo:
"Il Memorandum di Londra non cancella le Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza del 1947. La sovranità piena dovrà attendere un trattato di pace definitivo."

Però successivamente non ci sono stati trattati di pace definitivi ma solo un accordo confinario bilaterale con la Jugoslavia. Il Trattato di Pace del 1947 non è stato mai abrogato o sostituito da un altro del medesimo rango giuridico.


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giovedì 26 settembre 2024

TRIESTE, NATO, GOVERNO MELONI E LOBBISTI AMERICANI.

 


Si parla molto in questi giorni della società Utopia e dei proficui rapporti con la “fiamma magica” di Palazzo Chigi, svelati dal quotidiano "Domani" (clicca QUI). 

Anche se il potente sottosegretario Fazzolari ha smentito il rapporto di conoscenza con Zurlo, presidente e AD di Utopia, il quotidiano Domani ha “scoperto che l’altro socio della Spa è Di Giovanni, ex dirigente di Azione universitaria di FdI. Che invitava Meloni, Donzelli e gli altri big” (clicca QUI).

Giampiero Zurlo, fondatore del gruppo di “sharing policy e communication” (tradotto: lobby), da ormai un anno ha fatto il suo ingresso anche nell’editoria. 

Utopia, infatti, tramite lo spin off “Urania Media”, lo scorso anno è entrato con il 22,5% nel capitale sociale di “Base per altezza”, gruppo fondato da Paolo Messa, che edita la rivista di “influenza” americana Formiche che ha rilanciato gli articoli sul ruolo di Trieste per le strategie NATO delle americane The National Interest e Atlantic Council, espressione degli omonimi autorevoli e operativi think tank americani.

Il “comunicatore” / lobbista Paolo Messa, nel tempo, ha mollato la gestione della sua creatura e, fino al dicembre del 2023, è stato vicepresidente esecutivo di LEONARDO  nonché suo responsabile delle Relazioni geo-strategiche con gli USA. Ora è vicepresidente della NIAF, la National Italian American Foundation di Washington e ricopre la carica di Nonresident Senior Fellow presso l’Atlantic Council, lo stesso che la scorsa notte ha premiato Giorgia Meloni per mano di Elon Musk... Con cui la sinergia non è solo personale, ma anche politica e di affari (come scrive InsideOver QUI). 

Saranno lo spazio e le telecomunicazioni esterne a Tim le prossime aree di intervento in Italia dei capitali Usa? Il Ceo di Tesla e Starlink appare il candidato numero uno alle prossime mosse.

Il ministro della difesa Crosetto cofondatore del partito meloniano Fratelli d’ Italia ha svolto, prima di diventare ministro, l’ attività di “advisor” per LEONARDO, ricevendone compensi (leciti) per circa 1,8 milioni di euro  tra il 2018 e il 2021, senza contare altri compensi incassati da Orizzonti Sistemi Navali, partecipata sempre da Leonardo e da Fincantieri, come segnalato sempre dal quotidiano Domani nell’ ottobre del 2022 (clicca QUI).

 La LEONARDO spa, come noto, è una colossale industria di armamenti ed aereospazio (la prima in Europa) controllata dal governo italiano, di cui in questi giorni gli americani stanno  acquistando una quota superiore al limite del 3% tramite il fondo BlackRock, con l’ autorizzazione del Governo Meloni necessaria nei casi di industria strategica.

BlackRock aveva un portafoglio italiano del valore di 97,3 miliardi di dollari al 31 dicembre 2023, comprese quote del 7% del capitale di Unicredit, il 5% di Intesa San Paolo e partecipazioni in Eni, Enel e Generali.

La penetrazione della grande finanza americana in asset strategici italiani sta dunque aumentando con l’ approvazione del Governo Meloni.


La scalata di BlackRock a Leonardo fa il pari con la crescente sinergia del grande fondo americano con SACE, grande gruppo assicurativo controllato dal governo specializzato nel sostegno alle imprese, o con altri affari come la scalata di Kkr, fondo americano avente l’ex direttore della Cia David Petraeus tra i suoi partner, al controllo della rete di Telecom Italia.

David Patraeus è stato Comandante dell'United States Central Command, che prevedeva la responsabilità strategica di tutto il teatro medio-orientale, compresa la conduzione delle operazioni militari in Iraq e Afghanistan, prima di essere chiamato a diventare il 23° Direttore della CIA.

 

Ma cosa c’ entra tutto questo con Trieste?


Patreus è stato proposto, in interlocutori incontri a Trieste e a Washinghton, come possibile “patron” americano dell’ operazione studiata negli USA che vorrebbe fare del porto di Trieste contemporaneamente il vertice del triangolo Mumbay-Dubay-Trieste della “Via del Cotone” IMEC, sottoscritta dalla premier Meloni nel settembre 2023 durante il G20 a Delhi,  e del triangolo securitario Trieste – Danzica – Costanza  (il Trimarium della NATO), illustrata da Kaush Arha, Paolo Messa ed altri autorevoli autori (tra cui l’ ex Ministro degli Esteri del governo Monti Giulio Terzi di Sant’ Agata) nei numerosi articoli pubblicati recentemente dalle riviste dell’ Atlantic Council, The National Interest e Formiche.


Riguardo Trieste, Paolo Messa è stato protagonista il 13 settembre scorso di un’intervista “sdraiata” del quotidiano Il Piccolo di Trieste, come coautore degli articoli che sulle riviste degli autorevoli think tank americani illustravano il ruolo centrale che il porto di Trieste è destinato ad avere secondo le strategie securitarie americane per il  rafforzamento del fianco est della NATO in Europa e per il controllo dell’ Indo – Pacifico sotto lo schermo della “via del Cotone” IMEC che, in realtà, ha un valore economico e commerciale scarsissimo e, al momento, solo ipotetico.



L’ intervista, intitolata entusiasticamente “Un’ occasione unica: il FVG può diventare la porta per l’ Oriente”(sic!) in un doppio paginone intitolato pomposamente "La rotta da Trieste all' India", spiegava che il "presidente della Regione  FVG Fedriga partecipa agli eventi annuali a Washington della NIAF" di Paolo Messa. Nel contempo l' intervista tenta  di minimizzare i rischi che Trieste corre di essere coinvolta, suo malgrado, nel crescente bellicismo che sta caratterizzando il confronto tra gli Stati Uniti, Russia e Cina in una situazione internazionale esplosiva come non mai dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.


Si sa che i nodi logistici militari strategici, come pensano di far diventare Trieste, sono bersagli militari legittimi. E Trieste ha anche la disgrazia di essere a soli 80 km dalla base aerea militare americana di Aviano dotata di capacità nucleare e già utilizzata nel ’99 per i bombardamenti NATO su Belgrado e la Serbia. Il che non rassicura i cittadini.


I forti legami che il Governo italiano sembra avere con gli ambienti del potente Atlantic Council e del lobbismo americano fanno aumentare il timore che sia concretamente spianata la strada ai progetti militari USA di fare di Trieste il vertice di un triangolo di logistica militare che alimenti il fronte est della NATO: la nuova “Cortina di Ferro” che va da Danzica in Polonia a Costanza in Romania. 

Il che confligge con il suo status di Porto Franco Internazionale, neutrale e aperto a tutti, derivato dal Trattato di Pace di Parigi del 1947.

 

Paolo Deganutti


Nota: 

Su tutta la vicenda che coinvolge Trieste è uscito il libro “Trieste porto franco internazionale o bastione militare della Nato ?” che riporta anche gli articoli americani oltre ad analisi geopolitiche e militari e fornisce numerosi dati molti dei quali inediti (clicca QUI) 





venerdì 13 settembre 2024

TRIESTE, NATO, ARMI E PORTO FRANCO – Lettera aperta al Piccolo

Caro Piccolo,
    Oggi 13 settembre pubblichi un doppio paginone sulla dibattuta questione dell’interesse degli USA a fare del nostro Porto Franco un bastione strategico a sostegno del fianco est della NATO al fine di contrapporsi militarmente alla Russia e al resto dell’Eurasia.
    Dopo la pagina di domenica 1° settembre che prendeva spunto da un articolo, legittimamente criticabile, del prof. Pacini per accusare rozzamente di “propaganda russa” chi denuncia i rischi concreti di uso militare del Porto Franco Internazionale di Trieste in funzione antirussa e anticinese, oggi fai una parziale inversione di rotta tentando di apparire più equilibrato e in grado di fare giornalismo invece di denigrazione gratuita.

    Però non avresti sprecato ben tre pagine piene, in soli 10 giorni, se sotto quello che descrivi come fumo non ci fosse un grosso arrosto (oltre a parecchie sollecitazioni autorevoli).

    Oggi invece di un attacco denigratorio frontale, inefficace contro tesi ben documentate, hai dovuto scrivere di “granello di verità” e parli della, precedentemente ignorata, visita a Trieste avvenuta il giugno scorso del dott. Arha, esponente dell’ Atlantic Council, dimenticando però che era accompagnato da Carlos Roa ex direttore editoriale esecutivo del The National Interest nonchè Associate Washington Fellow all’ Institute for Peace and Diplomacy americano: entrambi ben inseriti negli ambienti che vanno, come tu scrivi, dai falchi liberal ai neo-con e securitari americani (quelli che hanno fomentato la fallimentare invasione USA di Afganistan e Iraq, per capirci).

    Dimentichi di dire che la mezza dozzina di articoli, in soli tre mesi, del dott. Arha su Trieste, Nato, Trimarium e Via del Cotone - in contrapposizione militare e commerciale a Russia e Cina - sulle autorevoli riviste dei think-tank americani Atlantic Council e National Interest erano firmati insieme a personaggi importanti.
Ad esempio: George Scutaru, ex consigliere per la sicurezza nazionale del presidente della Romania; Adam Eberhardt vicedirettore del Centro per gli studi sull’Europa orientale dell’Università di Varsavia; Paolo Messa che hai intervistato oggi. Il dott. Messa non è solo un senior fellow dell’Atlantic Council ma il vicepresidente esecutivo, fino al dicembre 2023, di Leonardo - la più grande società italiana attiva nei settori della difesa, dell’aerospazio e della sicurezza - nonché suo responsabile delle Relazioni geo-strategiche con gli Usa.
    Non si tratta, dunque, di giornalisti o intellettuali sognatori che parlano inutilmente.
    Del resto lo stesso tuo Giovanni Tomasin nell’articolo spiega che l’ Atlantic Councilfunge da collegamento informale fra leader europei e gli Usa”, ovvero si tratta concretamente di quella che si chiama “diplomazia parallela”.

    Purtroppo non scrivi, caro Piccolo, che l’ articolo di Arha il 10 settembre per Formiche sulla Via del Cotone era firmato insieme a, nientepopodimeno che, il Ministro degli Esteri del governo Monti, Giulio Terzi di Sant’Agata ora senatore di FdI, e a Francesco Maria Talò ex consigliere diplomatico di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi (ora da qualche mese in pensione). Clicca QUI

    Inoltre Arha era stato audito, come tu stesso scrivi, nell’aprile scorso dal Comitato Permanente sulla politica estera per l’indo-pacifico della Camera.

    Parlare dunque di “libero pensatore e intellettuale” e “curiosità intellettuale” a proposito di Trieste e NATO, come ci tocca leggere oggi, appare un po’ riduttivo (e fa sorridere come la fiaba di Biancaneve) anche alla luce del fatto che parliamo di un esperto pragmatico che “ha seguito fin dall’inizio la costruzione del gruppo I2U2, che include India, Israele, Emirati arabi e Stati Uniti, una intuizione nata dall’amministrazione Trump e confermata senza tentennamenti da quella Biden” come ci fai leggere oggi.

    E non citi nemmeno l’ articolo di Mirko Mussetti di Limes pubblicato sulla Rivista Marittima della Marina Militare italiana nel marzo del 2022 sulla “lettura militare della questione del Trimarium” che definisci “prematura” anche se è invece consolidata da anni.(clicca QUI)

    Tutto questo lo sapevi, e molto altro ancora, perché ti avevo mandato (anche a Tomasin personalmente) alcune copie del mio libretto “Trieste porto franco internazionale o bastione militare della Nato ?” che le illustra, citando esclusivamente fonti americane e occidentali e non certo moscovite o pechinesi. E di cui non hai, inusualmente, pubblicato nemmeno l’ annuncio della presentazione, avvenuta ugualmente con folto pubblico.
    
Bisogna trarre la conclusione che la parabola editoriale del Piccolo lo ha portato a coprire le operazioni dell' Atlantic Council e del National Interest, ovvero della destra neocon americana, eccezionalista e guerrafondaia, in collaborazione con la destra governativa italiana di Fratelli d' Italia? Accusando di essere "propagandisti russi" coloro che le portano allo scoporto? Ti stai riposizionando in previsione delle elezioni americane di novembre?

    Caro Piccolo, dal paginone odierno abbiamo appreso dal Commissario del Porto prof. Torbianelli che “Abbiamo oggi degli obblighi di far passare parte di logistica militare, ma questo non significa che il porto di Trieste sia un avamposto della Nato”.
        Sono proprio le pressioni americane perché lo diventi, bastione della Nato (veramente più “retrovia strategica e obiettivo militare legittimo” che avanposto), che preoccupano molto.
    Perché proprio a questo salto di qualità puntano chiaramente gli scritti, e le riunioni operative anche a Washington con partecipanti triestini, promossi dall’ Atlantic Council anche se usando il lubrificante della Via del Cotone attraverso Arabia Saudita e Israele: stati alleati degli USA nonostante non paiano attualmente campioni mondiali di diritti umani e democrazia.

    Caro Piccolo, dopo aver citato romanticamente il grande David Bowie il tuo Tomasin, per minimizzare e giustificare ogni situazione presente e futura, chiude così: “Trieste è un tassello di quel caotico e mutevole mosaico che chiamiamo Storia” che ci dovremmo tenere in saccoccia così come ci piomba sulla testa.
Il fatto che siano diventati Storia non assolve gli uomini dalle loro responsabilità e dai loro crimini.

    Al liceo un rimpianto professore mi insegnava che “La Storia è fatta da fatti che sono stati fatti dagli uomini” e non è un’entità mistica che governa i destini umani.
    Uno di questi fatti concreti è il Trattato di Pace del 1947 dove all’ art. 1 dell’ Allegato VIII si prescrive che “Il porto e le vie di transito di Trieste siano accessibili in termini uguali per tutto il commercio internazionale….. come consuetudine negli altri porti liberi nel mondo”, mentre l’allegato VI - articolo 3 - tuttora vigente - stabilisce con estrema chiarezza la neutralità e la smilitarizzazione del Territorio Libero di Trieste (o di ciò che ne è seguito) e del suo Porto Franco Internazionale.
    Tutto ciò è palesemente incompatibile con il traffico di armi e di “logistica militare” attuale, molto onestamente e lodevolmente ammesso dal Commissario Torbianelli nell’intervista odierna, e contro cui bisogna opporsi in linea con gli orientamenti dei sindacati dei lavoratori portuali, della società civile e, in particolare, delle organizzazioni cattoliche come Pax Christi e Fari di Pace e laiche come osservatorio Weapon Watch che annunciano su questo un’ iniziativa a Trieste per il 20 novembre prossimo. Iniziativa cui fin d’ora aderisco e invito ad aderire, così come aderisco alla manifestazione di domenica 15 settembre alle 17 da Largo Riborgo e aderirò a qualsiasi manifestazione per la pace e la neutralità chiunque la promuova.
    Perché è una questione terribilmente seria che si presenta in una situazione mondiale esplosiva e molto pericolosa che solo degli irresponsabili possono sottovalutare.

    Figurarsi se in un Porto Franco Internazionale possono essere permessi traffici d’armi esclusivamente a favore di un blocco, quello NATO, a danno di un altro!
Per giunta escludendo il resto del mondo perfino dal diritto ad approdare per compiacere sanzioni emesse, contro i propri avversari geopolitici, solo da 30 paesi sui 193 presenti all’ Onu!

    Può darsi che la Storia ci porti ad un epoca in cui le Potenze egemoni, e i loro satelliti, se ne fregano apertamente di trattati e diritto internazionale e in cui si usano smaccatamente due pesi e due misure a seconda delle convenienze: non ci si lamenti allora del caos crescente e del moltiplicarsi delle guerre.

    Un Porto Franco è un Porto Libero, libero veramente, in armonia coi Trattati di Pace e non con le Dichiarazioni di Guerra e le Sanzioni unilaterali emanate dall’ Egemone di turno.
    Per questo: per la pace, la neutralità e la prosperità vale la pena di battersi. Non per preservare uno “status quo” egemonico morente caratterizzato da crescenti disordini, guerre, diseguaglianze e impoverimento.
    Gli uomini la storia la fanno e non sono condannati dagli Dei a subirla: LA STORIA SIAMO NOI, ogni giorno.

Paolo Deganutti



martedì 18 ottobre 2022

E' GIUNTO IL MOMENTO CHE TRIESTE GUARDI AL SUO ENTROTERRA NATURALE EUROPEO -


BASTERÀ UNA CRISI DELLO STATO E DELL’ ECONOMIA ITALIANA PERCHE TRIESTE RICOMINCI A GUARDARE AL SUO ENTROTERRA STORICO E NATURALE” cui è legata da un secolare destino geopolitico economico e storico.
Così lo storico Bogdan Novak conclude il suo libro “Trieste 1941-1954. La lotta politica, etnica e ideologica“ pubblicato per l’ Università di Chicago nel 1970, osservando che la “Questione di Trieste” non è chiusa.

 Che ci sia una crisi epocale in Italia è evidente a tutti anche perché  la sua funzione di portaerei della Nato nel Mediterraneo (con 120 basi note più venti segrete QUI) e di stato vassallo degli Stati Uniti la coinvolge pesantemente nella guerra in corso. 

A differenza della Germania che ha spazi di mediazione  autonoma, un’ economia solida che le permette di stanziare 200 miliardi per calmierare le bollette e l' intenzione di riarmarsi autonomamente diventando così nuovamente un soggetto geopolitico a pieno titolo (stanziati 100 miliardi oltre al 2% del cospicuo PIL).

Fin dagli anni ’90 in Germania si parlava di “Kerneuropa”(QUI) – Europa del Nocciolo – termine usato dal ministro Shäuble riferendosi all’ ampia area centroeuropea (che comprende il Nord Est italiano) che è entrata a far parte della “catena del valore” tedesca (supply chain) e dipende dalla sua forte economia industriale.


I tedeschi ne parlavano come del “nocciolo” europeo da salvare e sviluppare in caso di crisi della Ue  o della moneta unica.

 Mentre gran parte dell’ Europa del Sud sarebbe stata da lasciar andare al suo destino. Il tema è tornato di moda con la crisi della Grecia e adesso.


 

Il Porto Franco Internazionale di Trieste - benché non ancora pienamente attuato perché manca da decenni una semplice comunicazione del governo alla UE – tuttora lavora per il 90% con la Kerneuropa e solo per il 10% con l’ Italia. Penisola con cui Trieste è tuttora malamente collegata: basti pensare alla linea ferroviaria passeggeri .
Non è un caso se l’ impresa pubblica HHLA della tedesca città di Amburgo ha investito nel nostro porto e si appresta a costruirvi il più grande terminal: il Molo VIII.
Mentre l’ Ungheria investe anch’ essa in un terminal.

La Storia ci insegna che alle condizione economiche e materiali poi seguono inevitabilmente gli assetti politici e amministrativi.

La situazione di Trieste è di essere dilaniata fra una realtà economica e una prospettiva di futuro che la spinge verso le sue origini mitteleuropee e una sempre maggior integrazione con la Kerneuropa  e una realtà politico-amministrativa centralista romana che la frena (nemmeno una lettera alla UE sullo status di Porto Franco riescono a mandare…).
Come la inarrestabile decadenza economica e demografica in 100 anni di annessione all’ Italia dimostrano a chiunque.

Questa è un’ epoca di grandi rivolgimenti geopolitici: chi si sarebbe aspettato solo due anni fa l’ attuale grave situazione internazionale di scontro Occidente-Oriente, l’ acceso conflitto italiano con il suo principale fornitore energetico, la chiusura dei gasdotti, i discorsi sulle bombe atomiche e così via?

La crisi sta investendo il tessuto della UE che si dimostra inadeguata. Investe le economie e l’ assetto degli stati di cui il meno unitario, seccamente diviso tra Nord e Sud, e il più disastrato è attualmente l’ Italia.

E’ giunto il momento che Trieste, che è una città nata veramente come tale appena nell’ 800 con il Porto Franco e quindi giovane, cominci a pensare a cosa farà da grande e se il fidanzato italiano, più imposto che scelto, sia adatto per una vita futura.
E  se valga la pena di morire con lui in un futuro di miseria e guerra.


E’ ormai ora di introdurre nel nostro dibattito pubblico il concetto di Confederazione Mitteleuropea per prepararci alle scelte dei tempi futuri guardando al modello di Amburgo che tuttora è una Città-Stato portuale, col rango di Stato e con un parlamento autonomo, all’ interno dello Stato Federale di Germania.

Ogni epoca trova le forme politiche e amministrative più adatte.
Ciò che sembrava poter andar bene dopo la Prima e dopo la Seconda Guerra Mondiale non va più bene adesso che stiamo vivendo una "Terza Guerra Mondiale a pezzi" come dice Papa Francesco.
Bisogna immaginare il futuro per non esserne travolti.

pd

 



domenica 16 ottobre 2022

"IN NOME DI DIO, FERMATE LA FOLLIA DELLA GUERRA" - L' APPELLO DI PAPA FRANCESCO


Anticipiamo un brano del libro che Papa Francesco pubblica alla soglia del decimo anno di pontificato. Nel volume «Vi chiedo in nome di Dio. Dieci preghiere per un futuro di speranza», a cura di Hernán Reyes Alcaide (Piemme, in uscita martedì), il Pontefice lancia un appello universale a costruire insieme un orizzonte di pace, un mondo migliore.


-“Più di duemila anni fa il poeta Virgilio ha plasmato questo verso: «Non dà salvezza la guerra!». Si fa fatica a credere che da allora il mondo non abbia tratto insegnamenti dalla barbarie che abita i conflitti tra fratelli, compatrioti e paesi. La guerra è il segno più chiaro della disumanità.
 Quel grido accorato risuona ancora.
Per anni non abbiamo prestato orecchio alle voci di uomini e donne che si prodigavano per fermare ogni tipo di conflitti armati. Il magistero della Chiesa non ha risparmiato parole nel condannare la crudeltà della guerra e, nel corso del XIX e del XX secolo, i miei predecessori l’hanno definita «un flagello», che «mai» può risolvere i problemi tra le nazioni; hanno affermato che la sua esplosione è una «inutile strage» con cui «tutto può essere perduto» e che, in definitiva, «è sempre una sconfitta dell’umanità».

Oggi, mentre chiedo in nome di Dio che si metta fine alla follia crudele della guerra, considero inoltre la sua persistenza tra noi come il vero fallimento della politica.

La guerra in Ucraina, che ha messo le coscienze di milioni di persone del centro dell’Occidente davanti alla cruda realtà di una tragedia umanitaria che già esisteva da tempo e simultaneamente in vari paesi, ci ha mostrato la malvagità dell’orrore bellico.
Nel secolo scorso, in appena un trentennio, l’umanità si è scontrata per due volte con la tragedia di una guerra mondiale. Sono ancora tra noi persone che portano incisi nei loro corpi gli orrori di quella follia fratricida.
Molti popoli hanno impiegato decenni a riprendersi dalle rovine economiche e sociali provocate dai conflitti.

Oggi assistiamo a una terza guerra mondiale a pezzi, che tuttavia minacciano di diventare sempre più grandi, fino ad assumere la forma di un conflitto globale.
Al rifiuto esplicito dei miei predecessori, gli eventi dei primi due decenni di questo secolo mi obbligano ad aggiungere, senza ambiguità, che non esiste occasione in cui una guerra si possa considerare giusta.
Non c’è mai posto per la barbarie bellica.
Tantomeno quando la contesa acquisisce uno dei suoi volti più iniqui: quello delle cosiddette “guerre preventive”.
La storia recente ci ha dato esempi, perfino, di “guerre manipolate”, nelle quali per giustificare attacchi ad altri paesi sono stati creati falsi pretesti e sono state contraffatte le prove.
 Per questo chiedo alle autorità politiche di porre freno alle guerre in corso, di non manipolare le informazioni e di non ingannare i loro popoli per raggiungere obiettivi bellici.
La guerra non è mai giustificata. Infatti non sarà mai una soluzione: basti pensare al potere distruttivo degli armamenti moderni per immaginare quanto siano alti i rischi che una simile contesa scateni scontri mille volte superiori alla supposta utilità che alcuni vi scorgono

La guerra è anche una risposta inefficace: non risolve mai i problemi che intende superare.
Forse lo Yemen, la Libia o la Siria, per citare alcuni esempi contemporanei, stanno meglio rispetto a prima dei conflitti?
Se qualcuno pensa che la guerra possa essere la risposta, sarà perché sbaglia le domande.
Il fatto che noi a tutt’oggi ci troviamo ad assistere a conflitti armati, a invasioni o a offensive lampo tra paesi, manifesta la mancanza di memoria collettiva.
Forse il XX secolo non ci ha insegnato il rischio che corre tutta la famiglia umana davanti alla spirale bellica? Se davvero siamo tutti impegnati a porre fine ai conflitti armati, manteniamo viva la memoria in modo da agire in tempo e fermarli quando sono in gestazione, prima che divampino con l’uso della forza militare. E per riuscirci servono dialogo, negoziati, ascolto, abilità e creatività diplomatica, e una politica lungimirante capace di costruire un sistema di convivenza che non sia basato sul potere delle armi o sulla dissuasione.
E poiché la guerra «non è un fantasma del passato, ma è diventata una minaccia costante» (lettera enciclica “Fratelli tutti”, 256), torno a ricordare lo scrittore Elie Wiesel, sopravvissuto ai campi di sterminio nazisti, il quale diceva che oggi è imprescindibile compiere una «trasfusione di memoria» e invitava a prendere qualche distanza dal presente per udire la voce dei nostri antenati. Ascoltiamo quella voce per non vedere mai più le facce della guerra.
Infatti la follia bellica resta impressa nella vita di chi la subisce in prima persona: pensiamo ai volti di ogni madre e di ogni figlio costretti a fuggire disperatamente; a ogni famiglia violata; a ogni persona catalogata come “danno collaterale” degli attacchi, senza alcun rispetto per la sua vita.

Vedo contraddizione tra quanti rivendicano le loro radici cristiane ma poi fomentano conflitti bellici come modi per risolvere gli interessi di parte.
No! Un buon politico deve sempre puntare sulla pace; un buon cristiano deve sempre scegliere la via del dialogo. Se arriviamo alla guerra è perché la politica ha fallito.
E ogni guerra che scoppia è anche un fallimento dell’umanità. Per questo dobbiamo raddoppiare gli sforzi per costruire una pace durevole.
Ci avvarremo della memoria, della verità e della giustizia. È necessario che tutti insieme apriamo la via a una speranza comune. Tutti possiamo, e dobbiamo, prendere parte a questo processo sociale di costruzione della pace.
Esso ha inizio in ciascuna delle nostre comunità e si innalza come un grido verso le autorità locali, nazionali e mondiali. Infatti è da loro che dipendono le iniziative adeguate per frenare la guerra.
E a loro, facendo questa mia richiesta in nome di Dio, domando anche che si dica basta alla produzione e al commercio internazionale di armi. La spesa mondiale in armamenti è uno degli scandali morali più gravi dell’epoca presente. Manifesta inoltre quanta contraddizione vi sia tra parlare di pace e, allo stesso tempo, promuovere o consentire il commercio di armi. È tanto più immorale che paesi tra i cosiddetti sviluppati a volte sbarrino le porte alle persone che fuggono dalle guerre da loro stessi promosse con la vendita di armamenti. Accade anche qui in Europa ed è un tradimento dello spirito dei padri fondatori.

 La corsa agli armamenti fa da riprova della smemoratezza che ci può invadere. O, peggio ancora, dell’insensibilità.
el 2021, in piena pandemia, la spesa militare mondiale ha superato per la prima volta i 2.000 milioni di dollari. A fornire questi dati è un importante centro di ricerca di Stoccolma, ed essi ci mostrano come per ogni 100 dollari spesi nel mondo, 2,2 siano stati destinati alle armi.

Con la guerra ci sono milioni di persone che perdono tutto, ma anche pochi che guadagnano milioni.
È sconfortante anche solo sospettare che molte delle guerre moderne si facciano per promuovere armi. Così non si può andare avanti.
Ai responsabili delle nazioni, in nome di Dio, chiedo di impegnarsi risolutamente a porre fine al commercio di armi che causa tante vittime innocenti.
 Abbiano il coraggio e la creatività di rimpiazzare la fabbricazione di armamenti con industrie che promuovano la fratellanza, il bene comune universale e lo sviluppo umano integrale dei loro popoli.
 Al pensiero dell’industria bellica e di tutto il suo sistema, mi piace ricordare i piccoli gesti del popolo che, anche tramite atti individuali, non smette di far vedere quanto la vera volontà dell’umanità sia di liberarsi dalle guerre.
Ma al di là del problema del commercio internazionale di armamenti destinati a guerre e conflitti, non meno preoccupante è la crescente facilità con cui in molti paesi si può entrare in possesso delle armi denominate “di uso personale”, in genere di piccolo calibro, ma a volte anche fucili di assalto o di grande potenza.
Quanti casi abbiamo visto di bambini morti per avere maneggiato armi nelle loro case, quanti massacri sono stati perpetrati per il facile accesso che a esse c’è in alcune nazioni?
Legale o illegale, su vasta scala o nei supermercati, il commercio di armi è un grave problema diffuso nel mondo.
Sarebbe bene che questi dibattiti avessero più visibilità e che si cercassero consensi internazionali affinché, a livello globale, fossero poste restrizioni sulla produzione, la commercializzazione e la detenzione di questi strumenti di morte.

Quando parliamo di pace e di sicurezza a livello mondiale, la prima organizzazione a cui pensiamo è quella delle Nazioni Unite (l’Onu) e, in particolare, il suo Consiglio di sicurezza.
La guerra in Ucraina ha posto ancora una volta in evidenza quanto sia necessario che l’attuale quanto sia necessario che l’attuale assetto multilaterale  trovi strade più agili ed efficaci per la soluzione dei conflitti.
In tempi di guerra è essenziale sostenere che ci serve più multilateralismo e un multilateralismo migliore. L’Onu è stata edificata su una Carta che intendeva dare forma al rifiuto degli orrori che l’umanità ha sperimentato nelle due guerre del XX secolo.
Sebbene la minaccia che essi si ripresentino sia ancora viva, d’altra parte il mondo oggi non è più lo stesso, ed è dunque necessario ripensare queste istituzioni in modo che rispondano alla nuova realtà esistente e siano frutto del più alto consenso possibile.
 È divenuto più che palese quanto queste riforme siano necessarie dopo la pandemia, quando l’attuale sistema multilaterale ha evidenziato tutti i suoi limiti.
Dalla distribuzione dei vaccini abbiamo avuto un chiaro esempio di come a volte la legge del più forte pesi più della solidarietà.
Ci si prospetta, dunque, un’occasione imperdibile per pensare e condurre riforme organiche, volte a fare recuperare alle organizzazioni internazionali la loro vocazione essenziale a servire la famiglia umana, a prendersi cura della Casa comune e a tutelare la vita di ogni persona e la pace.
Ma non voglio addossare tutta la questione alle organizzazioni, che in definitiva non sono più – ma del resto neanche meno – che un ambito in cui gli stati che le compongono si riuniscono e ne determinano la politica e le attività. Sta qui la base della delegittimazione e del degrado degli organismi internazionali: gli stati hanno smarrito la capacità di ascoltarsi a vicenda per prendere decisioni consensuali e favorevoli al bene comune universale.
Nessuna intelaiatura legale può sostenersi in assenza dell’impegno degli interlocutori, della loro disponibilità a una discussione leale e sincera, della volontà di accettare le inevitabili concessioni che nascono dal dialogo tra le parti.
Se i paesi membri di questi organismi non mostra[1]no la volontà politica di farli funzionare, siamo davanti a un evidente passo indietro.
 Vediamo, invece, che essi preferiscono imporre le proprie idee o interessi in maniera molte volte inconsulta. Soltanto se sfruttiamo l’occasione del dopo pandemia per reimpostare questi organismi potremo creare istituzioni con cui affrontare le grandi sfide, sempre più urgenti, che ci si prospettano, come il cambiamento climatico o l’uso pacifico dell’energia nucleare.
In questo senso, così come nella mia lettera enciclica “Laudato si’” esortavo a promuovere una «ecologia integrale», allo stesso modo credo che il dibattito sulla ristrutturazione degli organismi internazionali debba ispirarsi al concetto di «sicurezza integrale». Vale a dire, non più limitata ai canoni degli armamenti e della forza militare, bensì consapevole del fatto che in un mondo giunto a un livello di interconnessione come l’attuale è impossibile possedere, per esempio, una effettiva sicurezza alimentare senza quella ambientale, sanitaria, economica e sociale.
E su questa ermeneutica deve basarsi ogni istituzione globale che cercheremo di riprogettare, invocando sempre il dialogo, l’apertura alla fiducia tra i paesi e il rispetto interculturale e multilaterale.

In un contesto contrassegnato dall’urgenza, e in un orizzonte di condanna della follia bellica e di esortazione a ridefinire la cornice internazionale delle relazioni tra stati, non possiamo ignorare la spada di Damocle che pesa sull’umanità sotto la forma degli armamenti di distruzione di massa, come quelli nucleari. Davanti a un simile scenario ci domandiamo: chi possiede questi armamenti? Quali controlli ci sono? Come si pone freno alla logica che fa perno sull’accumulo di testate nucleari a fini di dissuasione?

 In questo contesto faccio mia la condanna di san Paolo VI verso questo tipo di armamento, che dopo oltre mezzo secolo non è divenuta meno attuale: «Le armi, quelle terribili specialmente, che la scienza moderna vi ha date, ancor prima che produrre vittime e rovine, generano cattivi sogni, alimentano sentimenti cattivi, creano incubi, diffidenze e propositi tristi, esigono enormi spese, arrestano progetti di solidarietà e di utile lavoro, falsano la psicologia dei popoli».
Non c’è motivo di restare condannati al terrore della distruzione atomica.
Possiamo trovare vie che non ci lascino appesi a una imminente catastrofe nucleare causata da pochi. Forgiare un mondo senza armi nucleari è possibile, dato che ne abbiamo la volontà e gli strumenti; ed è necessario, vista la minaccia che questo tipo di armamento comporta per la sopravvivenza dell’umanità. Avere armi nucleari e atomiche è immorale.
Sbaglia strada chi pensa che siano una scorciatoia più sicura del dialogo, del rispetto e della fiducia, ovvero gli unici sentieri che porterebbero l’umanità alla garanzia di una convivenza pacifica e fraterna.
Oggi è inaccettabile e inconcepibile che si continuino a scialacquare risorse per produrre questo genere di armi mentre si profila una grave crisi che ha conseguenze sanitarie, alimentari e climatiche e riguardo alla quale nessun investimento sarà mai abbastanza.
 L’esistenza delle armi nucleari e atomiche mette a rischio la sopravvivenza della vita umana sulla terra.
E quindi qualsiasi richiesta in nome di Dio affinché venga frenata la follia della guerra comprende anche una supplica a estirpare dal pianeta quell’armamento.
Il reverendo Martin Luther King lo ha espresso con chiarezza nell’ultimo discorso che pronunciò prima di essere assassinato: «Non si tratta più di scegliere tra violenza e non violenza, ma tra non violenza e non esistenza». La scelta sta a noi.


Clicca QUI per il manifesto programmatico della manifestazione del 5 Novembre.
RINASCITA TRIESTINA aderisce.