Visto il perdurare e l' accentuarsi della strumentalizzazione del
caso Regeni in una disgustosa faida politica fra partiti nazionali a Trieste
(la surreale "Battaglia degli Striscioni" fra "denti cariati" e usi strumentali da parte di chi, come il Bugiardello e il PD, la verità non sa nemmeno cosa sia) proponiamo ai nostri
lettori un articolo della rivista di geopolitica Limes del 20 aprile, utile a comprendere il fatto nel quadro di politica internazionale.
Nell' articolo si parla anche del caso dei due Marò.
Pensare che si tratti solo di un caso individuale di brutalità da
perseguire giudiziariamente è purtroppo semplicistico e ingenuo.
Ecco l' articolo, che è svolto dal punto di vista italiano (clicca QUI):
GLI ECCESSI DELL'ITALIA NEL CASO REGENI
Iperattivismo mediatico, superficialità e
orgoglio. Sull’onda della giusta indignazione per la morte del ricercatore
italiano, Roma sta seguendo la stessa logica di scontro che ha
dato risultati fallimentari nelle vicende di Cesare Battisti e dei due marò. È tempo
di cambiare, senza rinunciare ai nostri valori.
di Giuseppe Cucchi
Quello che è ormai
divenuto “il caso Regeni”
sottolinea ogni giorno di più quanto grande possa essere la differenza fra paesi che,
pur condividendo ufficialmente gli stessi valori, sono orientati diversamente
per quanto riguarda la politica estera.
Una realpolitik che tenga conto
più degli interessi che dei valori in gioco, oppure una politica che sia
appunto una “politica dei valori” e che quindi ponga i valori davanti a tutto,
qualunque sia il costo di questa affermazione di principio.
Gli esempi più
evidenti sono da un lato la Francia – che chiude entrambi gli occhi su
quanto successo a un cittadino di un altro paese Ue a lei molto vicino per
poter continuare i suoi lucrosi traffici con l’Egitto, centrati oltretutto su
una colossale vendita di armamenti – e dall’altro l’Italia, che pur
di ottenere giustizia sembra disposta a rinunciare a una posizione
particolarmente favorevole nel più grande paese del
Mediterraneo arabo.
Una posizione, tra l’altro, frutto
di decine di anni di paziente e durissimo lavoro.
Nel mezzo, alla
difficile ricerca di un equilibrio che consenta di non rinunciare ai
propri principi senza però espressamente condannare un regime la cui
sopravvivenza è fondamentale per la stabilità di un’intera area di grande
interesse strategico, si stanno pian piano disponendo tutti gli altri paesi
dell’Occidente.
Un risveglio di
coscienza che
si palesa però con notevole ritardo rispetto all’accaduto e che ancora stenta a
superare inerzie governative più o meno interessate.
Così negli Stati Uniti è la stampa più impegnata a
sollecitare una presa di posizione precisa da parte del governo, mentre in
quell’Inghilterra che pure dovrebbe sentirsi direttamente coinvolta poiché è
stata una sua Università ad incaricare un cittadino italiano dell’indagine sui
sindacati egiziani (scientifica quanto si vuole, ma palesemente non priva di
rischi in quanto ai limiti della ricerca informativa), è stata
addirittura necessaria un’iniziativa popolare perché si avesse una prima e
moderata presa di posizione ufficiale.
Noi italiani invece ci siamo sempre
mossi in una condizione di pieno allineamento al sentimento collettivo del
paese; il governo ha cercato di giungere quanto prima possibile alla
verità. A tal fine abbiamo provato dall’inizio a seguire tutte le
strade possibili, affiancando all’azione giudiziaria prese di posizione
politiche che dovevano essere rese più credibili dalla definizione di ben
precise scadenze e dalla prospettiva dell’adozione di eventuali misure
punitive.
Se in qualche modo
abbiamo peccato, è
stato probabilmente per eccesso.
Eccesso in tutto! Ad esempio,
nella rapidità con cui la missione commerciale guidata dal ministro Guidi ha
abbandonato il Cairo, rientrando in Italia più o meno nel momento stesso in cui
è stato ritrovato il corpo della vittima. Un rientro che agli occhi dell’opinione
pubblica mondiale è suonato immediatamente come una sentenza di condanna
per l’Egitto, la dimostrazione di come esistessero prove che magari non si
rendevano palesi subito ma che comunque portavano ad attribuirne con sicurezza
al governo di al-Sisi la responsabilità.
Eccesso nel modo in
cui la nostra stampa si
è immediatamente scatenata a costruire ipotesi, basandosi spesso su
dichiarazioni rilasciate da personaggi o troppo orientati in una precisa
direzione, come i sindacalisti di opposizione che Regeni aveva intervistato
nell’ultimo periodo della sua vita, o del tutto inattendibili, come l’ultima
superstite della famiglia di banditi fra le cui cose, in un maldestro e tardivo
tentativo di sviare l’indagine, erano stati inseriti i documenti del
ricercatore italiano.
Come sempre succede
con i nostri misteri nazionali, l’iperattivismo mediatico ha finito
per porre a disposizione del pubblico decine di verità tutte egualmente
possibili, rendendo di conseguenza difficilissimo pervenire all’unica verità
vera.
Eccesso di
semplificazione,
allorché non abbiamo voluto tener conto di come il mistero fosse ben più fitto
di quanto non fosse apparso a prima vista e di come rimanessero aperti degli
interrogativi fondamentali.
Primo fra tutti quello
relativo al ritrovamento stesso del corpo di Regeni. Con l’intero Sahara a disposizione,
perché abbandonare le povere spoglie ai margini di una strada di grande
traffico, ove l’unica cosa di cui si poteva essere sicuri era il rapido
ritrovamento?
Si voleva che esse
fossero reperite, e che lo fossero nel preciso momento della visita di Guidi,quando
la cosa poteva fare più danno alle relazioni fra l’Italia e l’Egitto. O forse
si mirava già, contando sulla reazione di Roma, a ottenere una condanna
internazionale del regime di al-Sisi?
Un’impressione confermata dal
documento anonimo pervenuto poi a La Repubblica, che con precisa
scelta dei tempi veniva informata, giusto alla vigilia dell’arrivo a Roma della
delegazione egiziana di alto livello destinata a incontrare magistratura e
polizia italiane, di una ricostruzione dei fatti chiaramente costruita su
misura per coinvolgere nell’accaduto l’intera dirigenza egiziana.
Il dossier infatti non
escludeva nessuno, rimbalzando dalla Polizia di Giza al Ministero
dell’Interno e ai Servizi Generali, dal Muhabarat ai Servizi Militari,
fino al presidente della Repubblica. Ovviamente contornato dal gabinetto
dei ministri e dai suoi più fidati consiglieri, tutti coinvolti come lui nelle
decisioni chiave dell’intera vicenda.
Più di quanto
necessario insomma per rendersi conto, qualora lo si fosse voluto capire,
che il povero Regeni e la povera Italia venivano utilizzate come strumenti di
una sfida politica senza esclusione di colpi che aveva come posta al-Sisi e il
suo regime.
Eccesso di ignoranza
o di orgoglio, forse di entrambi, allorché abbiamo reagito con una
mentalità nonché seguendo logiche e modi che erano soltanto europei, senza
tenere in alcun conto la diversa cultura e sensibilità di chi ci stava di
fronte. Ci siamo scatenati sin dal primo momento in un parossismo di accuse
dure e dirette, formulate in una maniera da non permettere al nostro
interlocutore di effettuare la minima ammissione senza perdere completamente la
faccia.
Del resto ci
comportiamo in questo modo ogni volta e per questo
incassiamo con regolarità scacchi cocenti senza volerne comprendere il
perché.
Si veda il caso Battisti, in cui abbiamo
preteso con arroganza che l’ex terrorista venisse consegnato a quella
stessa magistratura italiana che in quel momento il nostro premier indicava a
tutto il mondo come negativo esempio di partigianeria e inefficienza.
O quello dei due marò, ove non abbiamo
voluto capire che l’India non poteva accettare una soluzione ufficiale in cui
il proprio governo avrebbe perso la faccia davanti alla opinione pubblica
nazionale. Di conseguenza abbiamo perso l’occasione informale
che ci veniva offerta su un piatto di argento allorché i nostri due fucilieri
rientrarono per la prima volta. Se noi li avessimo arrestati
allora, pretendendo di giudicarli innanzitutto qui in Italia, il caso sarebbe
stato concluso. Magari con qualche protesta formale da parte dell’India, ma di
sicuro con grande sollievo di entrambi gli Stati coinvolti.
Eccesso di
velocità nell’agire di fronte a un’inchiesta giudiziaria
estremamente delicata, che investe non solo funzionari e organi di uno Stato
amico ma presenta anche, come accennato, aspetti che potrebbero far pensare a
congiure di palazzo di altissimo livello.
In queste condizioni,
come si può pretendere che il caso venga risolto in poche settimane? Per di più in
una maniera che deve assolutamente apparire soddisfacente alla nostra opinione
pubblica? Non siamo abituati noi stessi a una magistratura che si prende
abbondantemente i suoi tempi?
Eccesso di reazione, considerate le
misure che minacciamo di porre in atto. Sinora, per fortuna, ci siamo
limitatati al formale richiamo per consultazione del nostro ambasciatore al
Cairo, modo civile e quanto mai chiaro di segnalare il nostro scontento alla controparte.
Ora però si cominciano
a valutare con serietà altri possibili passi. Il primo è il cosiddetto
“sconsiglio” dell’attività turistica: non capendo che una misura del
genere colpirebbe non certo il governo e la classe dirigente, ma il popolo
egiziano. I proventi del turismo hanno infatti la caratteristica quasi
unica di disperdersi con immediatezza in milioni di tasche senza essere
sottoposti ad alcun filtro. Che colpa può mai avere il popolo egiziano di
quanto è successo a Regeni?
Si parla poi di
limitare le relazioni commerciali bilaterali. Ma simili
misure colpirebbero di più l’Egitto, che può sempre ricorrere ad altri
fornitori, o l’Italia per cui l’aumento delle esportazioni appare come la via
maestra per uscire dalla crisi?
Eccesso infine di
sottovalutazione di
quanto l’Egitto potrebbe fare se messo con le spalle al muro per rispondere
alle nostre decisioni. Qui lo spettro delle possibilità si fa veramente
ampio, investendo anche problemi che per noi risultano particolarmente
delicati.
Si pensi a quel
che potrebbe succedere se il Cairo decidesse di insistere nel suo sostegno
al governo libico insediato a Tobruk, impedendo così quella ricostruzione del
paese vicino che è indispensabile per disciplinare il flusso dei profughi verso
il nostro paese. O se decidesse di iniziare anch’esso la “politica dei barconi”, che il recente esempio della Turchia ha evidenziato essere
particolarmente redditizia. C’è da rabbrividire soltanto a pensarci.
È tempo dunque che la
nostra linea di azione nel caso Regeni venga accuratamente
rivista. Senza rinunciare ovviamente ad alcuno dei valori che ci
caratterizzano, ma sapendo come agire nella dovuta maniera e senza porre colui
che ci fronteggia in condizioni tali da rendere ogni soluzione impossibile.
Non è quindi la
sostanza della nostra azione che deve essere toccata: ogni Stato
è tenuto a difendere la vita e la memoria dei propri cittadini ed a
preservare, facendolo, non solo la sua ragion d’essere ma anche la propria dignità. Le
proprie posizioni possono essere portate avanti in cento modi diversi e
non è affatto detto che quanto appare oggi più duro risulti domani più
efficace.
Un buon livello di
conoscenza e di comprensione reciproca, nonché di adattamento dell’uno
all’altro, è indispensabile quando due culture diverse si fronteggiano e
tenere in piedi un dialogo corretto non è facile. In simili situazioni, il
ricorso alle minacce o agli ultimatum non può far altro che portare a stalli
insuperabili, perpetuando rancori che sarebbe nell’interesse di tutti attenuare
o eliminare.
Pensiamo a tutto
questo, e
pensiamoci bene, prima di continuare ad inanellare eccessi.
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