Oggi La Repubblica pubblica il primo articolo di Paolo Rumiz dedicato alla Nuova Via della Seta di cui il nostro Porto Franco Internazionale si candida a diventare terminal europeo.
Ci pare interessante.
Riuscirà Trieste ad essere all' altezza del suo passato quando grazie a personaggi come il Barone Revoltella fu al centro dell' impresa del Canale di Suez ?
Oppure vincerà la Trieste becera e ignorante che non è stata nemmeno presente alla cerimonia del raddoppio dello stesso canale due anni fa? Quella malata che si preoccupa di più per la proposta di insegnamento facoltativo e su richiesta dello sloveno nelle scuole pubbliche che non del futuro economico?
Dal momento che il giornale non si trova più nelle edicole proponiamo ai nostri lettori l' articolo di Paolo Rumiz:
DA TRIESTE AL MAR
GIALLO
La rotta delle spezie e dei sogni
prigioniera del nuovo Impero
Di Paolo Rumiz
Scoprii
la mia prima Cina a cinque anni, nell’armadio di un roccioso portuale triestino
alloggiato al piano sopra il mio. Si chiamava Oscar, abitava una mansarda
ottocentesca che spesso frequentavo e dalla quale dominavo il mondo. Da lì mi
affacciavo sul cortile, pieno di ufficiali eleganti, del comando
anglo-americano in città, e lì, in una polverosa soffitta piena di
cianfrusaglie mi trastullavo con un elmetto della Wehrmacht e un moschetto 91.
Era la mia tana. Ascoltavo Radio Praga da una vecchia radio piena di
interferenze, e divoravo da settimanali storie del conflitto appena finito come
fossero cosa di mille anni prima. Fu in quel sottotetto che cominciai a
masticare di storia e geografia. E fu quell’armadio a darmi la prima percezione
dell’Oriente. Tè, caffè, liquirizia. Non era ancora l’epoca dei container e i
portuali tornavano a casa con addosso l’odore delle merci o qualche manata di
roba di straforo. Annusando l’armadio di Oscar, era facile capire quali navi
fossero arrivate in porto. Sentivo l’Africa, le Americhe e soprattutto
l’Oriente. Fu in quell’armadio che trovai il primo curry e il primo cardamomo,
per non parlare dell’uva passa turca di ogni taglia e colore. L’incontro con la
Cina fu segnato dai grani di pepe nero che zampillarono da una scatola chiusa
male e si sparsero a terra come pallini da caccia. Poi vennero lo zenzero, i
chiodi di garofano e la scatoletta con l’anice stellato del Sichuan. Quel nome,
Sichuan, fu il mio primo invito al viaggio. Lo cercai subito sull’atlante, a da
lì partì la mia personale via della seta, lungo il fiume Oxus, il lago Aral, il
Karakorum e il deserto del Taklamakan. Quel sogno cinese si inserì senza fatica
nell’immaginario della mia città di frontiera e nella storia della mia
famiglia. Era stato il barone Pasquale Revoltella a spingere Vienna a puntare
sul canale di Suez e a diventare uno dei primi azionisti dell’impresa. Nelle
soffitte dei triestini era ancora facile trovare diari di bordo di navigazioni
a vela o a vapore su Shanghai e Hong Kong. Lavandaie cinesi avevano lavorato
nella città vecchia fino agli anni Trenta e negli uffici degli spedizionieri
trovavi cinesi triestinizzati da decenni come un certo Luciano Li Kiang.
Antonietto, fratello di mio nonno, era stato commissario di bordo sulle navi del
Lloyd Triestino e ci aveva riempito la casa di cineserie. Franco, fratello di
mia nonna, comandava il transatlantico Vulcania sulle rotte d’Oriente, e mi
lasciò ad assistere a uno dei sui famosi approdi alla stazione marittima senza
l’ausilio di rimorchiatori. Ma per me bambino quello era un Oriente astratto,
fatto di draghi di ceramica, ninnoli e porcellane. L’Oriente vero, esotico,
letterario e carovaniero, era quello arrivato col profumo delle spezie. Era la
folgorazione olfattiva. La via della seta di oggi, il nastro trasportatore
delle merci con cui Pechino vorrebbe penetrare l’Occidente, mi è arrivata,
sessant’anni dopo, per strade sensoriali diverse. È accaduto con uno choc
acustico, pochi mesi fa, quando la nave da crociera Majestic Princess, gigante
da 150 mila tonnellate e 4500 passeggeri, appena costruita per il mercato
cinese dai cantieri di Monfalcone, su ordine della Carnival Corporation, è
apparsa nel golfo di Trieste annunciandosi con un potente carillon da guerre
stellari, programmato su un motivo totalmente alieno al mio orecchio e alla mia
cultura. Quella scala armonica che faceva vibrare il Carso fino alle fondamenta
non era la Cina sognata da Occidente, ma la Cina imperiale temuta, che ci
entrava in casa con suoni da film kolossal per declinare gli accenti della sua
potenza. Era finito un mondo. Non eravamo più noi a cercare l’Oriente, ma
l’Oriente a entrarci in casa. «Cinquant’anni fa la Cina era assai più presente
nel nostro immaginario di quanto non avvenga oggi nell’era dei container»,
osserva Claudio Boniciolli, ex direttore generale dell’Adriatica di navigazione
e poi presidente dei porti di Venezia e Trieste. «Gli uomini di mare, allora,
stavano via da casa anche un anno di seguito. Vivevano i porti molto più
intensamente. Mio padre era ufficiale di macchina sulle navi del Lloyd
Triestino, e per vedermi nascere dovette chiedere un permesso speciale. La
nascita degli altri figli se l’era sempre persa. Quando rientrò, dopo il mio
battesimo, sapevo già camminare...». Erano i tempi in cui la bandiera del Lloyd
Triestino era di casa nei porti sul Mar Giallo e veniva riconosciuta e
rispettata ovunque. Poi venne la crisi delle Partecipazioni statali e lo
smantellamento della compagnia con lo sbarco a Trieste dei cinesi di Formosa -
società “Evergreen” - che, attraverso i loro emissari in loco, comprarono la
società e ne cancellarono il nome. Oggi ci si chiede: dopo anni di
indiscriminata delocalizzazione industriale italiana verso la Cina, subiremo o
saremo in grado di condizionare la nuova via della seta, dettandone alcune
forme e contenuti in modo da tutelare i nostri interessi? L’Italia saprà
sfruttare la sua posizione nel Mediterraneo agli effetti del grande gioco? E
l’ex porto degli Imperi centrali, la città dell’Orient Express e dei vapori per
l’Oriente, sarà capace di ritrovare un suo ruolo? Zeno D’Agostino, presidente
del porto di Trieste e di Assoporti, è convinto che dalla 4JML3PBEgli scali
italiani possono afferrare al volo una grande occasione, a patto di affrontarla
con «complessità di pensiero», perché ai cinesi non interessano i porti in sé,
ma tutto ciò che li completa: le ferrovie, le strade, i punti franchi, le aree
logistiche. «Dobbiamo parlare di valori, non di un banale corridoio di trasporto.
È lì la differenza». In questo momento di stagnazione dell’economia italiana,
siamo di fronte a una scommessa cruciale, che può svegliare le buone energie
del Paese. «I nostri porti possono diventare il luogo di sintesi di due
culture, quella della piccola e media impresa italiana e quella della grande
economia di scala cinese. Ci sono industrie del Sol levante che vogliono per
così dire italianizzarsi, assorbire il nostro modo di operare. È su questo che
dobbiamo lavorare. Sto trattando con una multinazionale del settore alimentare che
vede per esempio nella triestina Illy un modello vincente sul piano della
qualità, e analogamente all’industria del caffè, punta a importare qui le sue
merci per a trasformarle e raffinarle nello spazio del porto franco, in vista
di una successiva esportazione». Chissà: forse torna il profumo dell’anice
stellato del Sichuan nel porto che fu di Maria Teresa. Per decenni il porto è
stato il luogo delle rendite e di miserabili masi chiusi. Uno spazio tenuto al
riparo dal mar grande della concorrenza mondiale. Oggi siamo di fronte a
un’apertura e a una rivoluzione. Una sfida culturale prima che economica. Per
rispondere al tuono del carillon da guerre stellari dobbiamo risvegliare un
immaginario addormentato, percepire la nostra centralità mediterranea con respiro
strategico, vivendola non solo come luogo di sbarco di disperati ma anche come
vantaggio rispetto alle rotte di mare e di terra verso Oriente. Ho
un’affascinante carta dell’antica via della seta che mi fu regalata a Varsavia,
nel 2012, dal grande reporter Ryzsard Kapuscinski. Le linee di traffico vi sono
raffigurate da file di cammelli, i deserti da chiazze ocra e le grandi montagne
da tonalità marrone scuro chiazzate dal bianco dei ghiacciai. Forse tutto si
gioca, ancora, sulla nostra capacità di sognare.
Continua-