CON L’ ARRIVO DELLA BAT CON 2.700 POSTI DI LAVORO TUTTI
ORA SALGONO SUL CARRO DELLA “ZONA FRANCA”PRODUTTIVA: MA FINO A POCO FA ...
Adesso sono tutti per l’ utilizzo produttivo del Porto Franco e
il riconoscimento dell’ extraterritorialità doganale e per favorire
insediamenti industriali ecocompatibili.
Ma fino a poco fa erano non solo contrari ma accusavano di essere un “nostalgico asburgico” chi come noi da sempre sosteneva il valore del Porto Franco.
IL CASO PD E RUSSO
Il sen. Russo ha fatto togliere il Punto Franco da
Porto Vecchio 7 anni fa con il risultato che tutto è in degrado e sta crollando.
L’ Autorità Portuale saggiamente lo ha mantenuto sulla fascia costiera e all’
Adriaterminal dove infatti opera una realtà di avanguardia mondiale come la
Saipem e la borsa metalli della GMT.
La scelta di Russo era figlia di un’ ideologia neoliberista affermatasi nel PD
triestino contrario al Porto Franco e ben esplicitata da un articolo di Giorgio
Rossetti, da sempre dirigente e deputato europeo, sul Piccolo del 2 marzo del
2005 (vedi immagine iniziale).
A queste tesi si sono ispirati i più giovani dirigenti PD come
Cosolini, Russo e gli altri.
E il PD ha preso la strada senza uscita della urbanizzazione in chiave
turistica di Porto Vecchio, con tanto di spiaggia di sabbia a Barcola, anziché
quella dell’ uso produttivo dei Punti Franchi e della reindustrializzazione
ecocompatibile.
Ecco il testo:
“- Punto franco anacronistico
La notizia riportata dal «Piccolo» del 20 febbraio sui recenti
pronunciamenti della magistratura che «dichiarano in maniera univoca che il
Porto franco di Trieste va assimilato a territorio extradoganale e
internazionale» offre lo spunto per una puntualizzazione e qualche riflessione.
La precisazione riguarda lo stato giuridico attuale dei punti franchi di
Trieste nella normativa europea. Il codice doganale comunitario (regolamento
Cee 2923 del 1992) ha fatto scomparire la pre-esistente finzione giuridica che
considerava le zone e i punti franchi fuori dal territorio doganale dell'Unione
europea. Le merci provenienti da Paesi terzi che entrano nelle zone franche
comunitarie fanno nascere l'obbligazione doganale, ma l'esazione dei relativi
diritti è sospesa in attesa di conoscere la destinazione o l'utilizzo delle
merci stesse. Questo non impedisce all'autorità doganale di poter «controllare
le merci che entrano in una zona franca o in un deposito franco o che vi
vengono depositate o che vi escono» (art. 168, paragrafo 4), anche se per tale
controllo può risultare sufficiente «una copia del documento di trasporto che
deve accompagnare le merci all'entrata e all'uscita».
Sembra però di capire che i giudici – pronunciatisi «su diverse istanze»
presentate da un legale – abbiano considerato il punto franco di Trieste come
«non comunitario», riconoscendogli carattere extradoganale e internazionale in
base al Trattato di Pace.
Ma è il Codice doganale comunitario – che ha valore di legge in ogni Stato
membro – a indicare con puntualità all'art.3 quali sono le aree esterne al
territorio doganale dell'Unione. Per quanto riguarda il nostro Paese, il
territorio doganale comunitario comprende «il territorio della Repubblica
italiana a eccezione dei comuni di Livigno e di Campione d'Italia e delle acque
nazionali del Lago di Lugano racchiuse tra la sponda e il confine politico
della zona situata tra Ponte Tresa e Porto Ceresio».
Dunque, non essendo menzionato tra le eccezioni, si deve dedurre che anche il
Porto Franco di Trieste fa parte del territorio doganale comunitario. Lungi
dall'essere extraterritoriale, esso non risulta neanche extradoganale.
Questa situazione è del resto ben nota anche ai vari ambienti che a Trieste
sostengono l'intangibilità del Porto Vecchio, tanto da indurli a intervenire
nel novembre scorso sulla Rappresentanza italiana a Bruxelles e il 12 gennaio
scorso sui parlamentari europei del Nordest per lamentare l'omissione dal
regime extradoganale del Porto Franco di Trieste e chiederne l'inserimento
approfittando dell'aggiornamento in corso del Codice doganale comunitario.
Quale che sia l'esito di questa sollecitazione, c'è di che riflettere sulla
capacità di interdizione a qualsiasi cambiamento dell'area del Porto Vecchio
che alcuni ristretti ma potenti ambienti triestini riescono a esprimere. Dal
primo progetto (Polis, 1988) che cominciò a ipotizzare il riuso di quell'area
immensa e pressoché inutilizzata, sono trascorsi ormai 18 anni senza che si sia
fatto un solo passo avanti. Viene da pensare cosa sarebbe accaduto se Trieste
avesse vinto la gara per l'Expo, a quale figura ci saremmo esposti, considerata
la capacità dimostrata da questi circoli di bloccare ogni iniziativa. E viene
naturale chiedersi: per difendere che cosa?
Il volume attuale di merci movimentate in Porto Vecchio non giustifica
certamente questa difesa a oltranza; né oggi con la piena liberalizzazione
degli scambi ha senso attestarsi nella salvaguardia di un regime che ha sì
fatto le fortune della nostra città, ma in periodi di rigido protezionismo. Lo
studio della Fiat Engineering sul Porto Franco di Trieste affermava questo
concetto con molta nettezza: l'importanza dei Porti o Zone Franche era da
considerarsi «legata a un'epoca protezionistica ormai alle spalle», e quindi
individuava il vantaggio (allora, 1988) del regime speciale del porto di
Trieste esclusivamente nell'ottica di «interfaccia tra sistemi politici ed
economici diversi". Perché nel 1988 il muro di Berlino non era ancora
crollato. Ma ora che la maggior parte dei Paesi che avrebbero dovuto usufruire
del «libero accesso» allo scalo giuliano sono addirittura entrati – o stanno
per farlo – nell'Unione europea, che esiste un Mercato unico europeo in cui le
merci possono circolare liberamente, e che a livello internazionale il regime
degli scambi è totalmente liberalizzato e garantito dal Wto, qual è il
vantaggio del regime di Punto Franco?
Non siamo forse tutti d'accordo nel lamentare la grave crisi dello scalo
triestino, in controtendenza rispetto ad altri porti che pure non possono
vantare la nostra specialità? E difficile capire come si possa spiegare ai
parlamentari europei che il Porto Franco è «essenziale per il futuro della nostra
città, della nostra regione e dell'intero Nordest», quando non solo Venezia ma
anche Monfalcone sta sviluppando volumi di traffico superiori al nostro scalo
in barba al suo regime speciale.
Le rigide condizioni che ora i sostenitori del Punto Franco indicano per il
Piano regolatore del Porto lasciano intendere che questa partita è destinata a
durare ben oltre i 18 anni già trascorsi dalla prima ipotesi di riutilizzo del
Porto Vecchio. E resterà una storia infinita finché le forze responsabili e di «buona
volontà» a Trieste non affronteranno una volta per tutte il nodo di questo
regime anacronistico, pronunciandosi con chiarezza sui suoi limiti, in larga
misura sul suo superamento, e sul poco – se c'è ancora – da salvare. In assenza
di questa netta assunzione di responsabilità, il Porto Vecchio continuerà a
degradare, del tutto inutilizzato ai fini dello sviluppo della città; e certi
ambienti perpetueranno la loro forza di interdizione paralizzante.
Giorgio Rossetti -“
IL CASO DIPIAZZA E IL SUO NO ALLA REINDUSTRIALIZZAZIONE
Dipiazza, oltre a non aver combinato niente in Porto Vecchio
Dipiazza il 4/11/19 ai sindacati come riportato da Trieste Prima :
"Non siamo una città industriale" "Voglio dire ai sindacati una cosa: è ora di finirla di dare contro al sindaco. Lasciatemi lavorare in pace che sto portando avanti un discorso per una città che non è industriale e che ha molto altro da offrire. Devono capire che non siamo Brescia, comune che ha oltre il 30 per cento di occupati nell'industria. Insomma - ha concluso Dipiazza - non siamo una città industriale".
Infatti adesso, grazie al Punto Franco “Freeste”, arriva la BAT con 2.700 posti di lavoro qualificati che superano quelli persi in questo periodo da commercio e turismo.
Almeno taccia invece di cercare di intestarsi anche questo in cui non c’ entra assolutamente niente.
IL CASO PACORINI E “IMPRENDITORI ILLUMINATI”
Pacorini è un caso esemplare di opposizione al Punto Franco (dopo averlo abbondantemente usato per la borsa materie prime). Ma anche Riccardo Illy era sulla stessa lunghezza d’ onda tant’ è che entrambi avevano intrapreso la strada della politica nel medesimo schieramento.
Nel riquadro riportiamo le dichiarazioni di un membro della dinastia Pacorini:
Sotto un articolo dello stesso sul Piccolo del 15/7/2017 in cui smentisce la possibilità di uso produttivo e industriale del
Porto Franco: proprio quello a cui adesso Zeno D’Agostino Presidente dell’ Autorità Portuale sta lavorando con successo. Ci voleva uno da fuori per mandare in soffitta i brontosauri locali che si atteggiano a “classe dirigente” quando sono solo capaci di farsi gli affari propri.
Pacorini che ha osteggiato il Porto
Franco fin dal momento del suo impegno in Trieste Futura in Porto Vecchio vede
smentite le sue tesi proprio dall’ arrivo della BAT.
E' stato presidente locale di quella Confindustria che ha assistito inerte alla
deindustrializzazione di Trieste (ormai ridotta a meno del 9% del PIL da industria)
occupandosi più di turismo in Porto Vecchio che di industrie, nonchè candidato
sindaco del Centro Sinistra pervaso da un' ideologia Anti Zone Franche.
Quando non è stato eletto Sindaco ha rifiutato di fare il semplice consigliere
comunale, carica troppo umile per Sua Arroganza, dimettendosi sdegnato.
Adesso Trieste deve e può darci un taglio.
Le elezioni comunali del 3 e 4 ottobre sono un' occasione irripetibile di cambiamento: abbiamo deciso di candidarci con ADESSO TRIESTE per questo.
Paolo Deganutti
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