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Pubblicato in LIMES: IL MURO PORTANTE - n°10 - 2019 - 8/11/2019
L’IRRIDUCIBILE ALTERITÀ DI TRIESTE
di Paolo Deganutti
Gli indipendentisti invocano lo sviluppo del porto franco stabilito dagli accordi del secondo dopoguerra. I fasti asburgici e il declino post-annessione. La Mitteleuropa come entroterra naturale. Il mito delle città Stato. Trieste è troppo internazionale per essere italiana.
Gli indipendentisti invocano lo sviluppo del porto franco stabilito dagli accordi del secondo dopoguerra. I fasti asburgici e il declino post-annessione. La Mitteleuropa come entroterra naturale. Il mito delle città Stato. Trieste è troppo internazionale per essere italiana.
1. Già nel 1970 lo storico Bogdan
Novak scriveva: «La questione di Trieste potrebbe essere nuovamente portata all’attenzione del
mondo (…) da una grande crisi economica in Italia che potrebbe provocare una
grave disoccupazione nella città. Gli italiani di Trieste sarebbero indotti a
prendere in considerazione il retroterra come soluzione e a chiedere di
internazionalizzare la città» .
Nel 2013 l’endemico spirito autonomista di Trieste, nelle sue varie gradazioni – dall’ autonomismo moderato e borghese all’ indipendentismo radicale e popolare – è riaffiorato come un fiume carsico in superficie. Alcune imponenti manifestazioni popolari hanno riproposto il tema del Territorio libero di Trieste (TLT) e del porto franco internazionale, con striscioni e comizi in italiano, sloveno, tedesco, inglese e il dialetto «triestin» come lingua franca (2).
Nel 2013 l’endemico spirito autonomista di Trieste, nelle sue varie gradazioni – dall’ autonomismo moderato e borghese all’ indipendentismo radicale e popolare – è riaffiorato come un fiume carsico in superficie. Alcune imponenti manifestazioni popolari hanno riproposto il tema del Territorio libero di Trieste (TLT) e del porto franco internazionale, con striscioni e comizi in italiano, sloveno, tedesco, inglese e il dialetto «triestin» come lingua franca (2).
Secondo la tesi
indipendentista, che segue un approccio legalitario tipicamente triestino dovuto alla proverbiale fiducia «asburgica» in leggi e istituzioni,
il TLT istituito dal
trattato di Parigi (1947) andrebbe considerato ancora
valido de iure. Nessun trattato o accordo successivo di rango
minore avrebbe avuto il potere di modificarlo, né il Memorandum di Londra
(1954) né il trattato bilaterale di Osimo (1975). Soprattutto,
l’indipendentismo mette al centro, concretamente, lo sviluppo del Porto Franco
Internazionale di Trieste, previsto dai trattati citati e regolato
dall’allegato VIII del trattato di pace ritenendolo, a buon diritto, il vero
cuore dell’economia locale, in grado di assicurare prosperità a un territorio
autonomo.
Per effetto di questi
trattati precedenti alla formazione dell’Unione Europea (e da essa recepiti), il porto franco di Trieste è il solo in Europa a cui è garantita la
piena extraterritorialità doganale. Ciò lo rende un unicum su
cui nemmeno Bruxelles ha poteri di intervento. Extraterritorialità doganale che
ha fatto ipotizzare, in seguito al Brexit, il suo utilizzo anche come sede di
grandi imprese attualmente nel Regno Unito, riproponendo quel Centro
finanziario offshore previsto dalla legge 19/1991 promulgata nel clima di
euforia esploso alla caduta della cortina di ferro, ma mai realizzato malgrado
sponsor importanti come le Generali.
Da oltre sette decenni l’Italia si
dimostra molto restia alla piena attuazione del regime di porto franco nelle modalità previste dall’allegato VIII, che pertanto è diventato
il centro delle rivendicazioni del Coordinamento lavoratori portuali Trieste
(Clpt), il sindacato maggioritario dei lavoratori portuali triestini.
Come ha dichiarato Paola De Micheli,
ministro dei Trasporti, «l’Agenzia delle dogane non ha mai voluto compiutamente riconoscere il regime di extradoganalità del porto
franco triestino». Non vi è necessità di riconoscimenti a livello Ue, essendo
il regime di Trieste stato escluso dal regime comunitario (intervista a Il
Piccolo 24/10/2019). Così lo striscione «Allegato VIII» figura sempre
alla testa dei cortei dei portuali, che lo scorso luglio hanno ottenuto
l’apertura di un tavolo di alto livello su questo tema al ministero
dell’Economia. Per comprendere appieno la particolarità della situazione
triestina, bisogna partire dalla considerazione che qui i lavoratori portuali
si stanno mobilitando per ottenere l’applicazione di un trattato internazionale
stipulato oltre settant’anni fa, pienamente sostenuti in questo dalle imprese e
dagli spedizionieri che operano nel porto.
2. L’importanza dell’economia
portuale per il territorio è accuratamente documentata dall’Analisi di
impatto economico del porto di Trieste, svolta dall’Agenzia imprenditoriale
operatori marittimi (Aiom) presieduta dal professor Sergio Bologna. Le cifre
presentate in questo documento parlano chiaro. Lo studio ha stimato un
fatturato annuo prodotto nel 2018 direttamente dal porto, pari a 1,3 miliardi
di euro, per un valore aggiunto di 497 milioni di euro. L’occupazione diretta è
di 5.070 unità e quella indiretta di 2.142.
Il valore dell’indotto in termini di
fatturato è di 1,5 miliardi di euro e l’occupazione indotta di 3.974 unità. Complessivamente, il comparto portuale produce 2,8
miliardi di fatturato, 1 miliardo di valore aggiunto e un’occupazione
complessiva di 11.186 unità. Lo studio ha altresì calcolato il gettito fiscale
generato dal porto: 205 milioni per le casse statali e 274 milioni per quelle
regionali. In termini relativi, il porto e il suo indotto rappresentano il 12%
dell’occupazione della provincia di Trieste. In termini di pil, invece, il
porto rappresenterebbe il 9% della ricchezza prodotta nel territorio
provinciale.
Malgrado queste cifre (3), la politica
locale aveva quasi scordato l’importanza del porto franco internazionale per l’economia e la vita della città, puntando invece su
strategie economiche tanto astratte quanto inefficaci, incentrate
sull’urbanizzazione di aree già portuali in chiave turistica e non sullo
sviluppo di attività produttive in zona franca e sulla portualità.
Il merito dei movimenti indipendentisti è
stato, indubbiamente, quello di rifocalizzare il dibattito pubblico sulle tematiche del porto franco e dell’internazionalizzazione,
istanze ormai universalmente affermatesi.
Andando oltre la disputa giuridica
sull’attualità del TLT, la sostanza che concretamente alimenta questa visione, scevra di qualsivoglia rivendicazione di tipo identitario,
molto presente in quasi tutti gli indipendentismi (veneto, sardo, catalano o
scozzese), è iscritta nel dna della città. Come sottolinea il bel libro di
Claudio Magris e Angelo Ara, Trieste: un’identità di frontiera, o
quello di Jan Morris Trieste o del nessun luogo, non vi è alcuna
identità definita. In realtà, Trieste è una vera città solo da meno di tre
secoli. Si è sviluppata intorno al porto franco istituito dall’imperatore Carlo
VI d’Asburgo nel 1719 ed è cresciuta grazie all’impulso fornito da Maria Teresa
d’Austria, che vi fece affluire da tutto il mondo operatori e mercanti, di
svariate etnie, lingue e religioni. Uno sviluppo travolgente evidenziato anche
da un acuto osservatore come Karl Marx.
Due suoi articoli, usciti sul New
York Tribune rispettivamente il 9 gennaio e il 4 agosto 1857, ne attribuivano il merito sia al vasto entroterra europeo, il
«mercato unico» dell’impero, sia al fatto che «Trieste aveva, al pari degli
Stati Uniti, il vantaggio di non possedere un passato». Scriveva l’autore
tedesco: «Popolata di commercianti e speculatori italiani,
tedeschi, inglesi, francesi, greci, armeni, ebrei in variopinta miscela,
[Trieste] non piegava sotto le tradizioni. Mentre il commercio veneziano dei
cereali non usciva dai vecchi rapporti, Trieste allacciava il suo destino con
la stella sorgente di Odessa, e al principio del XIX secolo, escludeva la
rivale dal commercio mediterraneo dei cereali».
È curioso ricordare che la famosa scalinata di Odessa (a sua volta porto franco dal 1819), ripresa nel film La corazzata Potëmkin di Sergej Ejzenštejn fu costruita con pietre arenarie delle cave triestine, i masegni, fatte arrivare appositamente dal porto franco di Trieste. Forse è stato proprio il tentativo di superare l’intrinseca debolezza del sentimento di identità nazionale a produrre, a Trieste, icone tragiche del nazionalismo italiano più radicale. Come Wilhelm Oberdank, successivamente italianizzato in Guglielmo Oberdan, figlio illegittimo della domestica slovena Josepha Oberdank, e diversi altri irredentisti italiani, dai cognomi slavi o tedeschi: Adolfo Liebman, Giani Stuparich, Scipio Slataper, Marco Prister.
È curioso ricordare che la famosa scalinata di Odessa (a sua volta porto franco dal 1819), ripresa nel film La corazzata Potëmkin di Sergej Ejzenštejn fu costruita con pietre arenarie delle cave triestine, i masegni, fatte arrivare appositamente dal porto franco di Trieste. Forse è stato proprio il tentativo di superare l’intrinseca debolezza del sentimento di identità nazionale a produrre, a Trieste, icone tragiche del nazionalismo italiano più radicale. Come Wilhelm Oberdank, successivamente italianizzato in Guglielmo Oberdan, figlio illegittimo della domestica slovena Josepha Oberdank, e diversi altri irredentisti italiani, dai cognomi slavi o tedeschi: Adolfo Liebman, Giani Stuparich, Scipio Slataper, Marco Prister.
3.Le radici dell’endemico
autonomismo/ indipendentismo triestino affondano nella frustrazione provocata
dall’ essere decaduti dallo status di porto principale (e terza città) del più
grande impero europeo a piccola città periferica di uno Stato a sua volta
periferico e arretrato, nel rapporto profondo tra la città e il suo porto
franco internazionale e nella funzione che quest’ultimo ha svolto, e
soprattutto subìto, nelle dispute geopolitiche internazionali. Come scriveva
profeticamente Luigi Einaudi («se l’Italia vorrà conservare Trieste, lo potrà
fare solo a condizione di non voler sfruttare il porto di Trieste a vantaggio
esclusivo degli italiani» (4) e come hanno sempre sostenuto i veci nati
durante l’impero, tra cui il poeta Biagio Marin (autore di una struggente
poesia sul tema (5), il porto di Trieste avrebbe perso
«gran parte del suo valore nel giorno che fosse separato dal suo entroterra
tedesco e slavo e aggregato all’Italia».
Cioè quanto è puntualmente avvenuto a partire dall’annessione successiva alla prima guerra mondiale.
Cioè quanto è puntualmente avvenuto a partire dall’annessione successiva alla prima guerra mondiale.
L’attuale popolazione di Trieste (204.849)
è inferiore a quella censita nel 1910, ovvero 229.510, cui si sommavano più
di 35 mila immigrati giunti dal Regno d’Italia. Un caso unico tra le città
europee, che da inizio secolo hanno generalmente moltiplicato il numero degli
abitanti, segno di una decadenza pronunciata e costante. Prendendo a esempio i
collegamenti ferroviari passeggeri, oggi non vi è più alcuna linea diretta con
Vienna, mentre la linea ferroviaria austriaca Trieste-Vienna fu inaugurata già
nel 1857. Una situazione peggiore di centosessanta anni fa, che testimonia
quanto è stato fatto per tagliare le radici mitteleuropee di Trieste, in
ossequio al nazionalismo italiano. E basta un viaggio per notare come il
collegamento ferroviario passeggeri tra Trieste e il resto dell’Italia – via
Venezia – sia inefficiente e distante da qualsiasi standard moderno.
Tutt’altra cosa è il collegamento merci
del porto franco internazionale con il naturale entroterra mitteleuropeo. Utilizzando vettori esteri e sfruttando la ramificata rete
ferroviaria lasciata in eredità dall’impero, compresi ponti e viadotti datati
1857, l’Autorità portuale ha fatto della ferrovia la principale modalità di
trasporto terrestre, realizzando un forte e costante incremento annuo (10 mila
treni standard registrati nel 2018, dato stimato in crescita per il 2019). Come
sostenuto da più parti, l’impressione è che l’Italia abbia voluto Trieste per
farne un simbolo di unità nazionale, per poi dimenticarsene rinunciando a
utilizzare le notevoli potenzialità geoeconomiche del suo porto franco.
Il risentimento per questo «oblio» aveva
già alimentato il dirompente fenomeno autonomista della Lista per Trieste (il cosiddetto «Melone»), che nelle elezioni
comunali del 1978 scardinò il sistema partitico locale. Ma questa formazione
politica era egemonizzata dai nazionalisti delusi dall’Italia «matrigna»,
ultimi eredi della borghesia liberal-nazionale italiana della prima metà del
Novecento, che riuscirono a strumentalizzare l’autonomismo latente e il
«portofranchismo» endemico, capitalizzando il sentimento di rancore tipico
dell’amante tradito. Ora, nel neo-indipendentismo triestino questi sentimenti
ambivalenti verso l’Italia sono invece assenti. Il fine è esplicitamente
ottenere quella «internazionalizzazione della città» di cui parlava Novak.
4. La sensazione di abbandono è
peraltro corroborata dai risultati di un secolo di annessione: isola-mento
dall’entroterra naturale europeo – solo ora in via di superamento – e
fallimento dell’integrazione con il sistema economico italiano, che gli
irredentisti avevano invece prefigurato.
Mettiamo a confronto i due porti che
l’Italia ha recentemente indicato come possibili terminal delle nuove vie della seta: Trieste e Genova.
A Trieste, il 90% delle merci attualmente
transitanti per il porto franco internazionale riguarda itraffici con l’Europa centro-orientale. Esempio chiarissimo dell’integrazione
nella catena di distribuzione tedesca è l’oleodotto transalpino Tal/Siot, che da
cinquant’anni pompa petrolio greggio fino a Ingolstadt, in Baviera, fornendo il
40% del fabbisogno petrolifero tedesco (il 100% delle regioni della Baviera e
del Baden-Württemberg), il 90% di quello austriaco e oltre il 30% di quello
ceco. Solo il 10% dei traffici è diretto verso l’Italia. Dunque un porto che fa
da snodo tra l’Europa e l’Oriente (lontano e vicino), utilizzando il Canale di
Suez e il suo recente raddoppio, come descritto da Luigi Einaudi già nel 1915.
Dal canto loro, i traffici del porto di Genova interessano per il 47,4% la
Lombardia, per il 18,4% il Piemonte, per l’8,6%, l’Emilia-Romagna e per l’8,2%
il Veneto. Complessivamente, circa il 90% dei traffici è destinato all’Italia –
il contrario di Trieste. C’è da meravigliarsi se Genova ha prodotto Balilla,
mentre a Trieste predominano indipendentismo e cosmopolitismo?
Non c’è nemmeno da stupirsi se a Trieste
prevalga l’opinione che le nuove vie della seta lanciate da Pechino non siano un pericolo, bensì un’opportunità per ritornare all’antica
funzione di fulcro fra Occidente e Oriente, frustrata dall’isolamento
conseguente all’annessione all’Italia avvenuta nel primo Novecento. La
decadenza del porto di Trieste seguita al distacco forzoso dall’entroterra
naturale e all’aggregazione al sistema politico-economico italiano, rivelatosi
indifferente (quando non ostile per motivi di concorrenza), ha prodotto il
tracollo dell’industria navalmeccanica e di quel tessuto industriale che di
norma prospera intorno ai grandi porti. Si è assistito all’instaurazione di
un’economia assistita e all’elefantiasi del pubblico impiego.
A Trieste, il pil prodotto dal settore
industriale ammonta ora a circa il 9%, mentre in Friuli al 21%. La media nazionale italiana è del 18,5% e quella della stessa Roma è
del 13%. Per fare un paragone, la Germania ha il 27,5% e la città Stato
portuale di Singapore il 26%. La via maestra per venire fuori da questa penosa
situazione è quella intrapresa dall’Autorità portuale: utilizzare il regime di
porto franco, magari completato con fiscalità di vantaggio, per favorire
insediamenti industriali e produttivi che mantengano sul territorio il valore
aggiunto dei traffici portuali e sviluppare al massimo le connessioni
internazionali. E qui il rapporto con l’Asia e la Cina diventa cruciale per la
città portuale dove è stato progettato il Canale di Suez 6, che con la sua
realizzazione ha regalato a Trieste una posizione centrale nei traffici tra
Europa e Oriente.
Trieste, come spesso accaduto, per esempio
durante la prima guerra mondiale e nella guerra fredda, si trova nuovamente al centro di tensioni geopolitiche importanti. Non più
solo intraeuropee stavolta, ma principalmente tra Usa e Cina. Il porto di Trieste
è ritenuto, geopoliticamente e militarmente, troppo strategico per poter
diventare tout court un terminal delle nuove vie della seta a
disposizione della Cina. Probabilmente il punto di equilibrio tra spinte
contrapposte va ricercato nella sua particolare natura di porto franco
internazionale, da mantenere a disposizione di tutti gli Stati, senza privilegi
o discriminazioni. È dalla sua posizione «terza» e neutrale nei conflitti che
un porto franco può trarre vantaggio, così come la franchigia doganale e
daziaria lo agevola in un periodo di crescente protezionismo e guerre
commerciali. E questo è anche uno dei motivi che induce a sviluppare sentimenti
autonomisti in opposizione agli Stati nazionali e al loro necessario schierarsi
nel contesto internazionale.
5. Il manifestarsi, con andamento
carsico, di movimenti popolari e organizzazioni autonomiste/indipendentiste a
Trieste, focalizzate sulla promozione del porto franco internazionale, non ha
niente a che fare con chiusure identitarie localiste. È piuttosto espressione
della spinta all’ internazionalizzazione e alla piena realizzazione del ruolo di
nodo di traffici e connessioni internazionali. Questa è da trecento anni
l’anima profonda di questa città, che non può lasciarsi ingabbiare nel
nazionalismo senza deperire. Come pochi sanno, è qui che nel 1827 Josef Ressel
ha inventato, collaudato e brevettato l’elica navale, dispositivo che ha
rivoluzionato la navigazione, in un contesto di effervescente sviluppo
economico e culturale.
In questa visione, l’autonomia e il
distacco dalle pastoie burocratiche e dalle inefficienze dello Stato nazionale – vissuto come un’obsoleta struttura centralistica, con una classe
politica incapace non solo di produrre visione strategica, ma semplicemente di
stare al passo con gli sviluppi dei traffici internazionali – sono ritenuti
passaggi necessari. Presupposti per poter sviluppare le evidenti potenzialità
geoeconomiche della città portuale in questa nuova fase. La missione storica e
geopolitica di Trieste, pena la perdita della sua ragion d’essere, è quella di
servire, come porto franco, un’ampia area plurinazionale, quale che sia la
forma politica più consona al momento storico.
Forte resta il fascino esercitato dalle
città Stato portuali che si pongono sulla scena globale come nodi della rete di traffici e connessioni internazionali, gestite da
amministrazioni locali snelle, efficienti e ben sintonizzate sulle necessità
dell’apparato produttivo e della società civile. Innanzitutto Singapore, un
mito per gran parte degli indipendentisti triestini, ma anche Brema e Amburgo,
che tuttora sono Stati con istituzioni proprie federati alla Germania.
E non potrebbe essere diversamente in una
città portuale sempre più integrata nella catena del valore tedesca e che risente dell’influsso delle faglie
geopolitiche riattivate dal rimescolamento degli assetti europei e dalle
tensioni globali. Dal Trimarium alle rivendicazioni autonomiste nel Nord-Est
italiano (ma anche in Baviera); dal riemergere del concetto di Kerneuropa e
di «Europa di Mezzo» (Mitteleuropa) non solo come nostalgia culturale, ma come
area di integrazione economica. Per arrivare infine ai confronti su larga scala
tra Usa, Cina e Russia.
L’autonomismo/indipendentismo triestino è
attraversato da sentimenti ambivalenti: voglia di distacco (dall’Italia) e
di integrazione (con l’Europa di Mezzo), nostalgia per i fasti passati e
proiezione verso un futuro globale. Paradossalmente, a Trieste il più forte
impulso politico verso un mondo interconnesso sembra essere quello che
apparentemente indicherebbe la direzione contraria: il decentramento e
l’autonomia da uno Stato nazionale inefficiente e attraversato da forti spinte
verso chiusure nazionaliste, quelle che ora si usa denominare «sovraniste».
Note:
1. B.C. Novak, Trieste 1941-1954,
Chicago 1970, University of Chicago Press (edito in Italia da Mursia, p. 441).
2. A. Luchetta, «Se Trieste rinnega
l’Italia», Limesonline, 27/1/2014; «Basta dialogo, il Movimento
Trieste Libera passa all’autodifesa dall’Italia», Limesonline,
4/3/2014.
3. Dati in M. Sommariva, «I porti
marittimi da locale a globale», Sistemi di Logistica, autunno 2019.
4. L. Einaudi, Guerra ed economia
– Prediche, Roma-Bari 1920, Laterza, p. 42.
5. La poesia recita: «Trieste è felice
stasera/ Celebra con trasporto la sua futura sventura/ Perché tutte le volte
che questa nostra città si è concessa con sconfinato entusiasmo all’Italia
amata, ha subito imboccato la triste strada della decadenza/ Noi eravamo il
gioiello dell’Impero di Maria Teresa e il porto dell’Austria/ Eravamo la rosa
profumata degli Asburgo/ Con l’Italia saremo un piccolo fondaco gestito in modo
sbrigativo dai burocratici e diventeremo una società strozzata e rassegnata di
facili guadagni e di indomabili nostalgie/ Oggi è cominciato il nostro
tramonto».
6. L. Goriup, «Se esiste il Canale di Suez
il merito è di Revoltella», Il Piccolo, 5/12/2017.
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