RESTITUIRE TRIESTE AL FUTURO -

AUTONOMI DALL' ITALIA MA CONNESSI CON IL MONDO - RESTITUIRE TRIESTE ALLA MITTELEUROPA - RESTITUIRE TRIESTE AL SUO FUTURO: CENTRALE IN EUROPA INVECE CHE PERIFERICA IN ITALIA -

mercoledì 26 luglio 2017

COL TURISMO DI MASSA TRIESTE SI GIOCHEREBBE L' ANIMA - CON IL CASO "PASTICCERIA PIRONA" TRIESTE SI RISCOPRE CITTA' DI CULTURA INTERNAZIONALE OLTRECHE' PORTO FRANCO DI LIVELLO MONDIALE - BAZAR O TURISMO CULTURALE E CONGRESSUALE?


Trieste, nel clima di riscoperta della propria dimensione internazionale e delle proprie potenzialità, sta recuperando a livello di massa anche gli aspetti culturali.

Un clima di soffocante nazionalismo aveva messo in ombra i contributi fondamentali di grandi personaggi rei di non essere italiani.

Pensiamo al caso scandaloso di Joseph Ressel inventore dell' elica navale, inventata e collaudata nel nostro golfo, oltrechè della posta pneumatica ed altro, colpito da "damnatio memoriae" perchè nato in Boemia e morto a Lubiana: gli è stato dedicato solo un vicolo cieco anzichè Piazza Grande (ora Unità) come meriterebbe.
Immaginiamo cosa si sarebbe potuto costruire anche sul piano del turismo culturale su un' invenzione del genere che ha rivoluzionato i trasporti come a suo tempo fece la ruota.


Il prof. Crivelli, studioso di Joyce altro gigante internazionale che è vissuto a Trieste, ha pubblicato sul Piccolo un articolo in cui insiste sul valore di luoghi e locali come la "pasticceria Pirona" anche per lo sviluppo di un turismo colto e di qualità. 
Lo riproduciamo in  fondo per chi non lo avesse letto.

Oggi sul Corriere c'è un bell' articolo di taglio economico dal titolo:

"Turismo, dobbiamo tornare alla dimensione classica – Non dobbiamo puntare agli ospiti delle grandi navi che invadono Venezia, ma agli «uomini universali» che amano cultura e natura, raccogliendo le sfide digitali." (clicca QUI)

Da molti anni invece a Trieste non si fa altro che parlare di turismo, prevalentemente di massa, per coprire l' assenza di strategie serie per una ripresa economica vera nei settori produttivi di base.


Turismo in Porto Vecchio, tanto di massa da prevedere addirittura "due milioni di visitatori all' anno" (clicca QUI), turismo delle mitiche navi da crociera di cui si è verificato che i passeggeri non prendono neanche un caffè in città perchè troppo indaffarati a imbarcarsi e sbarcare, oppure a trasferirsi a gran velocità a Venezia.

Turismo,Turismo e solo Turismo... (e mai Porto Franco o Industria)...quasi Trieste fosse Grado o Pramollo...come facile soluzione a tutti i mali e come accalappia consensi... per non dover affrontare il nodo dello sviluppo economico che adesso finalmente comincia a intravedersi con l' utilizzo produttivo e industriale dei Punti Franchi che tutti i politici, compreso i saccenti "progressisti", definivano ormai "inutili e anacronistici".

Poi si è visto che la realtà è diversa...e naturalmente tutte le chiacchiere turistiche non hanno fermato la decadenza economica e sociale di Trieste che oggi ha meno abitanti del 1910, caso unico tra le città europee.

Dimenticando però, nel profluvio di annunci e proclami, proprio quel turismo qualificato adatto ad una città mitteleuropea e internazionale: il turismo culturale e quello congressuale entrambi ricchi, con importanti ricadute economiche ed "ecocompatibili".
Infatti a Trieste si viene per una particolare atmosfera e una particolare vivibilità (che va preservata) che si è conosciuta magari con una visita di lavoro o di studio.


Ecco allora proliferare, in nome del mitico Turismo, bazar con bancherelle di tutti i generi, manifestazioni strampalate, mostre di quarta categoria come quella attuale dell' personaggio televisivo Sgarbi, isterico ma ammanigliato politicamente e, su tutto, fantasticare sull' urbanizzazione a fini turistici di Porto Vecchio che sarebbe il motore economico di Trieste (naturalmente a oltre due anni e mezzo dalla "sdemanializzazione" non si è mosso un solo mattone...).
Paccottaglia da "Sagra della Sardella" lontana anni luce da 
"Mittelfest" di Cividale, "Pordenone Legge",  o "E' Storia" di Gorizia e perfino dalle stupefacenti e mirabili mostre organizzate in canonica dal parroco della sperduta Illegio (Tolmezzo !) (clicca QUI).

Ecco che Trieste ha perso il turismo congressuale perchè, utilizzata la Stazione Marittima per le crociere, non si realizza il Centro Congressi annunciato da anni al Silos, nel frattempo diventato un bivacco di disperati.

Mentre la Sovrintendenza, autentica calamità a Trieste, invece di tutelare il patrimonio culturale da Miramare alla Pirona, si occupa di vincolare aree portuali (porto Nuovo compreso) impedendo agli operatori di ammodernare e lavorare, opera per vessare cittadini e imprese come nel noto "caso Picchione" finito davanti ai giudici, mentre decine di suoi dipendenti sono stati sorpresi a rubare lo stipendio da appostamenti della Guardia di Finanza e giustamente denunciati.

Ebbene, se di turismo a Trieste si vuole parlare, non come paravento per l' assenza di qualsiasi strategia di ripresa economica, si parta da una seria riflessione dopo dalla lettura dei due articoli segnalati.

Corriere 26/7/17 
Turismo, dobbiamo tornare alla dimensione classica - 

Non dobbiamo puntare agli ospiti delle grandi navi che invadono Venezia, ma agli «uomini universali» che amano cultura e natura, raccogliendo le sfide digitali.

di Francesco Grillo
Ci vollero due anni a Goethe per compiere il suo viaggio in Italia e scrivere la più famosa celebrazione di una generazione di «uomini universali» che furono i primi turisti dell’età moderna. Dopo duecento anni, grazie a tecnologie che rendono possibile ad individui e territori di incontrarsi senza intermediazioni, torna l’idea del viaggio come esperienza in grado di coinvolgere e far crescere. 
Ed entra in crisi quella di un turismo diventato settore industriale fondato su economie di scala e consumi di massa. Potrebbe essere questa l’occasione che l’Italia aspettava per potersi riprendere non solo la leadership in un mercato in crescita, ma anche un ruolo importante in un secolo fondato sulla conoscenza.
Ruolo che abbiamo perso per la sonnacchiosa presunzione di essere al centro di un mondo i cui centri si stavano, invece, moltiplicando.
Per decenni il mondo delle vacanze è stato dominato da multinazionali proprietarie di agenzie di viaggio, alberghi, aerei e navi.
Visitatori e territori ne subivano le scelte scegliendo tra pacchetti completi.
Il declino dell’Italia — nel periodo in cui il numero di turisti internazionali triplicava — è dipeso da questo motivo: il Paese con il maggior numero di siti Unesco non ha mai pensato di dover preoccuparsi di una dimensione artigianale che ne era elemento distintivo e limite.
Ciò ci ha fatto perdere quote di mercato (dal 10% nel 1990 quando eravamo al primo posto nella classifica dell’Organizzazione Mondiale del Turismo; al 5% oggi che siamo scivolati al quinto).
Ridotto la parte di spesa che rimane nei luoghi della visita a vantaggio dell’operatore che controlla il turista; concentrato le presenze in pochi luoghi e in poche settimane scatenando, in alcuni casi (l’ultimo in Liguria), conflitti tra turisti e comunità locali.
La novità sono piattaforme digitali globali che ci portano in un mondo nel quale gli individui organizzano da soli il proprio viaggio e i singoli fornitori di ospitalità si propongono.
Una mutazione non diversa da quella di altri settori industriali investiti da rivoluzioni che impongono prodotti sempre più personalizzati.
Questo non è, però, un processo privo di contraddizioni perché le piattaforme non sono neutre e possono diventare intermediari più potenti di quelli che sostituiscono, utilizzando quantità di dati imponenti.
E, spesso, non sono neppure indipendenti, perché le multinazionali intelligenti si adattano al nuovo contesto diventando esse stesse piattaforma.
E, tuttavia, la novità corrode le rendite e a Parigi il Comune ha dedicato un laboratorio che incuba decine di imprese dedicate a ridefinire il turismo.
Sul lato dell’offerta, tornano centrali i territori che devono trovare una specializzazione intelligente.
Come Bilbao che ha dimostrato — con musei di nuova concezione — che puoi essere capitale culturale, non solo se si hanno millenni di storia; o Taiwan che si reinventa come destinazione di turismo sportivo (cicloturismo).
Come città che si vendono con efficacia perché si sono completamente liberate dalle automobili; o villaggi scampati allo spopolamento per aver scelto di distinguersi vietando l’utilizzo di qualsiasi telefono cellulare.
Per l’Italia, la scelta distintiva è naturale. Non subire più le scelte degli operatori che portano a piazza San Marco i grattacieli galleggianti da cui sciamano gruppi di turisti sfiancati alla ricerca di un gelato.
Riportare il turista a quella dimensione classica — fatta di simboli della conoscenza e monumenti naturali come le dolomiti o la Costiera amalfitana — che dopo duecento anni potrebbe ridiventare il completamento di molteplici percorsi di formazione. Gli ultimi anni hanno visto già un’inversione di tendenza.
L’uscita di Egitto e Turchia dal mercato ha favorito il nostro Sud; l’Alto Adige ha conquistato velocemente una leadership nel turismo invernale; nel Piemonte collegando stili di vita e cibo hanno inventato nuove nicchie.
Se però volessimo fare della cultura il vettore attraverso il quale l’Italia recupera un ruolo centrale, c’è bisogno di una strategia più ambiziosa che, solo in parte, si legge nell’ultimo Piano del governo.
C’è, innanzitutto, l’obbligo di dedicare al nostro patrimonio il talento che merita: l’apertura della direzione di siti che sono patrimonio dell’umanità è giusta persino sul piano morale, ma bisogna completarla con meccanismi che premino chi riporterà i musei italiani ai primi posti nel mondo e allontanare chi ha considerato la cultura un proprio territorio.
Bisogna, poi, ridefinire il ruolo dello Stato: rinunciare alla guerra di trincea infinita tra amministrazioni — senza soldi e senza idee — che si contendono un monopolio che non ha senso; e incoraggiare dal centro l’innovazione che esiste solo se ammettiamo che tra territori c’è competizione leale.
 Ma soprattutto è indispensabile capire che ridiventiamo capitale del viaggio, solo se la cultura e la natura ridiventano il centro di tutte le altre politiche e di comunità che riscoprono di essere tali.

Piccolo 25/7/15
TRIESTE SI GIOCA LA SUA ANIMA

Il caso della dispersione di un segmento del patrimonio culturale di Trieste, la pasticceria Pirona, conosciuta in tutto il mondo per via di un grande sponsorizzatore come James Joyce, ha suscitato un ampio dibattito.
I modi e le responsabilità di questa perdita, che mi auguro non sia definiva, sono oggetto di critiche e di riflessioni in questi giorni.
A stupire, certo, è la risposta immediata di una fetta di città alla denuncia di un colpo rilevante dato al nostro sistema turistico-rappresentativo.
Contrariamente a quel che si temeva, cioè di trovarsi davanti all’ennesimo caso di insensibilità collettiva, nel giro di poche ore più di 1500 persone hanno reagito, si sono domandate come è potuto accadere, si sono riproposte di controllare in futuro la gestione e la tutela di quel che abbiamo: qualcosa che contribuisce allo sviluppo del nostro turismo culturale, in straordinaria crescita negli ultimi anni.

Questo fatto ci deve indurre a pensare, a riflettere su uno scenario ben più ampio.
Attualmente Trieste usufruisce di una rete di Caffè Letterari di primo livello, dal San Marco al Tommaseo, dal Caffè degli Specchi al Caffé Torino.
Sono le nostre perle, nel cui novero vanno poste anche la Pasticceria La Bomboniera, e la Pasticceria Caffè Pirona, che forse è perduta.
Trieste Città Letteraria, il luogo dove la cultura permea i suoi caffè per via di una tradizione centenaria, ecco uno dei nostri fiori all’occhiello.
Caffè dove siede non solo Claudio Magris, ma dove troviamo anche altri scrittori triestini, ed essi stanno accanto ad una marea di studenti; studenti che circondano le persone e i luoghi della cultura che stanno apprendendo. Un fatto raro, forse unico.
Che salda in profondità la nostra storia letteraria e il presente delle nuove generazioni.

Ho viaggiato molto all’estero, sono stato ospite di tante università, e sempre, parlando di Trieste (la città bellissima che, quando gli scrittori stranieri la scoprono, non la dimenticano più), sulle loro bocche usciva subito la stessa frase: “Ah Trieste, la città della letteratura”.
Questo, dunque, è il brand, il marchio che abbiamo lasciato nel mondo.
Non importa quanto sia davvero immenso, ma quel che conta è che “questa” è una realtà “spendibile” nella vasta fetta del turismo culturale internazionale.
Trieste, una città che, quando uno la scopre, non la dimentica più… Alla Trieste Joyce School dell’Università, giunta quest’anno alla sua “gloriosa” ventunesima edizione, noi questo lo sappiamo benissimo.
Ogni anno qui sono venute centinaia di studenti da ogni parte del mondo, e la maggior parte di loro, come confessava poi, “non aveva mai sentito parlare di Trieste” ma ne era rimasta… “abbacinata”.
Studenti, e professori, che si domandano regolarmente “come mai la sua bellezza non è propagandata a dovere”. Gente che, dopo, ha ritenuto di dover tornare a Trieste, magari dagli Stati Uniti, addirittura per sposarsi qui, o per festeggiare trent’anni di matrimonio.

Questo è ciò che abbiamo, e che spesso lasciamo languire. Ma tutto questo interesse, come nel caso specifico del popolo di Joyce, ha rappresentato un’importante ricaduta commerciale per la città: studenti, appassionati di letteratura, scuole intere che vengono per visitare i luoghi Joyciani o quelli di Svevo o di Saba (tutti illustrati da cento targhe sparse per tutta la città, come in uno straordinario Museo all’aperto) sono un’importante risorsa per alberghi, ristoranti, bed & breakfast, bar.
Cultura e commercio: ecco un binomio che la città non ha ancora metabolizzato e su cui vale la pena riflettere. Questo, per ora scarso, connubio dovrebbe, a mio parere, avere come punto di incontro, luogo di mediazione, la politica, le istituzioni.
Si dovrebbe aprire un dialogo con Federalberghi, con i Caffè letterari, con i luoghi commerciali.
Una strada lunga e difficile. Basti un solo esempio: alcuni anni fa, avendo saputo della nascita di un hotel intitolato a James Joyce, mi sono recato dalla proprietà per suggerire un modo originale di spendere il rapporto cultura-commercio. L’idea, visto che l’hotel aveva 12 stanze, era di intitolare ognuna ai dodici racconti di Gente di Dublino, un’opera di Joyce nota in tutto il mondo, insegnata nelle scuole come testo di riferimento.
Era un salto di qualità verso un’interazione nuova fra cultura e commercio.
Farne, insomma, un Hotel di Charme, invogliando gli appassionati joyciani nel mondo. Ebbene, fui allontanato in malo modo e tutto finì lì. Certo, poi fu l’Hotel Vittoria a prendere il testimone, chiamandosi, con coraggio, Hotel Letterario. Il che andava nella direzione giusta.

Il caso Pirona ha dunque infiammato una città che, ad onta degli scettici, ha saputo alzare la testa, ha saputo chiedere una rilettura di questo rapporto fra cultura e commercio.
E, allo stesso modo, questo “popolo della letteratura”, ha chiesto anche una maggiore interazione fra Trieste e la Sovrintendenza, che non può comportarsi come un organismo “al di fuori” della realtà cittadina.
Una Sovrintendenza che può anche sbagliare, ma che può, facendo ammenda, affrettarsi ad aprire il discorso sulla necessità di tutelare i Caffè che resistono.
Cui deve associarsi il Comune, l’Assessorato al Turismo, che non può occuparsi solo di navi da crociera, ma deve conoscere, informarsi, capire altri elementi che foraggiano il nostro turismo in crescita.
E magari fare un piano che preveda vere agevolazioni ai privati che attualmente posseggono questi nostri gioielli e se ne fanno carico in modo “eroico” talvolta.

Insomma, è venuto il momento di mettere intorno ad un tavolo commercianti e operatori culturali (che tanto fanno per attirare turismo), coinvolgendo la Regione e la Sovrintendenza.
Per riflettere insieme ed agire meglio in futuro.

Renzo Crivelli

La differenza tra le due foto che seguono è che la prima, di Venezia, ritrae turisti, seppur di massa, mentre la seconda, di Trieste, ritrae triestini che vanno "a veder le bancarele come a San Nicolò":
Trieste "p.zza europa 2017"

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