Come è noto il Porto Franco Internazionale di Trieste è il capolinea dell' "Autostrada del Mare" tra Turchia ed Europa Centrale.
Da noi arrivano i traghetti turchi con i TIR ed è un traffico importante che utilizza le prerogative uniche del Punto Franco.
Per questi motivi ciò che avviene in Turchia, e nei rapporti fra la Turchia e gli altri Paesi, in questi tempi di grandi cambiamenti successivi al fallito "colpo di stato" interessa moltissimo la nostra città.
Offriamo in esclusiva ai nostri lettori l' editoriale dell' ultimo numero della rivista di geopolitica Limes interamente dedicato alla Turchia e ai recenti sviluppi interni ed internazionali.
La Turchia secondo Erdoğan
1. LA TURCHIA FU IMPERO. DUNQUE NON CESSERÀ MAI DI PENSARSI tale. Ma il
sogno neocesariano, esaltato dal surplus ideologico del suo credo, che si vuole
universale, e dal culto della sua razza, che si pretende guerriera, resterà
probabilmente tale. Per carenza di risorse, non di volontà.
Qui sta il dramma geopolitico di un popolo dall’identità incompiuta,
tuttora sofferente per l’umiliazione subìta nel cataclisma della prima guerra
mondiale, sancita dai trattati ineguali che ne seguirono. Per sopravvivere, i
turchi dovettero smettere i logori ma gloriosi panni ottomani. E inventarsi
nazione. Trauma identitario: in epoca imperiale, coloro che comunemente
chiamiamo turchi non amavano definirsi tali. Erano gli europei a bollarli
così, imponendo un marchio di permanente successo, misto di disprezzo e paura,
occidentale senso di superiorità e islamofobia. Peggio: per ogni fiero
ottomano, sul cui ceppo turanico, germogliato nelle steppe centroasiatiche, si
erano innestate nei secoli fioriture persiane, bizantine, levantine,
arabo-islamiche, «turco» era sinonimo di «tonto», con specifico riferimento
agli anatolici rurali, miseri analfabeti. Il motto stesso della nuova nazione,
«felice colui che può dirsi turco», trasudava ironia.
Allo Stato turco battezzato nel 1923 restava uno spazio irrisorio rispetto
all’apogeo imperiale, quando i tricontinentali domini ottomani si estendevano
almeno nominalmente dall’Atlantico nordafricano al Volga, dalle marche
austro-ungariche alla Penisola Arabica, fino al Corno d’Africa. Torso amputato
delle sue plurisecolari articolazioni extra-anatoliche, avendo perso fra
Settecento e incipiente Novecento prima l’egemonia sul Mar Nero, poi i Balcani,
infine le Arabie. Arroccato sugli Stretti e nel contiguo acrocoro orientale,
non proprio terra di elezione. Attardato a emulare modelli politici e
amministrativi europei proprio mentre l’Europa cessava di torreggiare sul
mondo, poi che i suoi miraggi positivisti erano evaporati sui campi di
battaglia della Grande guerra. Sicché Abdullah Cevdet, fra i più brillanti
ideologi dei Giovani Turchi, concedeva: «Non c’è altra civiltà. Civiltà
significa civiltà europea e dev’essere importata con le sue rose e le sue
spine»1. A esporre un complesso d’inferiorità talmente vivo che ancora oggi
nella sinossi ufficiale della politica estera turca è stabilito: «La Turchia
è determinata a diventare membro a pieno titolo dell’Unione Europea come parte
del suo sforzo bicentenario di raggiungere il più alto livello della civiltà
contemporanea» (tondo nostro, n.d.r)2.
Lo sguardo fisso al faro europeo, soprattutto francese ma anche italiano,
tedesco, svizzero, induceva la nuova classe dirigente a promuovere una
formidabile pedagogia nazionale. Quasi rifondazione antropologica. Fondata
sullo sprezzo della recente decadenza ottomana, sull’oblio della trascorsa
grandezza imperiale e sulla pulsione rivoluzionaria volta a formare i cittadini
della repubblica laica in ambito culturale musulmano. Con istituzioni e prassi
che un giorno avrebbero dovuto evolvere il bruco post-ottomano nella farfalla
di una compiuta democrazia europea.
Questo il grandioso progetto di Mustafa Kemal, poi Atatürk. Padre della
patria. Ateo, ma venerato fondatore di una religione laica. Macedone, ma
inventore della Repubblica Turca. Architetto e guida dello Stato nazionale in
costruzione. Presidente di un’assai peculiare repubblica, non sultano/califfo
di un insieme sovranazionale già declinato in una miriade di comunità
religiose, etniche e culturali, cui la Sublime Porta concedeva briglie più o
meno sciolte. Atatürk è tuttora oggetto di culto, specie da parte di
ciò che resta della laica élite militare. Omaggio peraltro ossificato,
sterile. Sicché un fido consigliere di Ahmet Davutoğlu, stratega principe
dell’islamismo politico oggi dominante, caduto in disgrazia dopo aver invano
cercato da ministro degli Esteri e poi da capo del governo di realizzare il
sogno alchemico di ogni accademico – trasmutare le proprie teorie in realtà
effettuale – confida: «Dobbiamo accompagnare il signor Atatürk alla tomba» 3.
Impresa cui si sta applicando il padre padrone della Repubblica Turca,
Recep Tayyip Erdoğan, che si vorrebbe proprio quel che Atatürk rifiutava di
essere: sultano e califfo. Il tempo stringe, visto che l’orizzonte
neo-sultanale dovrebbe consolidarsi entro il 2023, centenario della fondazione
della repubblica. Da virare nel frattempo in regime presidenziale,
formalizzando lo stato di fatto: a capo della repubblica c’è un presidente
sultano. Ad ogni modo, nella Turchia di Erdoğan – come nella Russia di Putin –
il potere non deriva dalla carica, ma dalla persona che la ricopre: lui stesso.
La sovranità in carne e ossa.
Sotto il profilo geopolitico, questa repubblica ad personam è revisionista. Destino che sembra accomunare gli Stati che nascono
per disintegrazione dall’impero (valga anche qui l’analogia con la Federazione
Russa): la Repubblica Turca non può accettare lo status quo perché il paragone con il passato imperiale riflette
l’insopportabile chirurgia territoriale cui fu sottoposta dai nemici interni ed
esterni che secondo Erdoğan da sempre complottano contro la sua grandezza:
terroristi curdi e militari felloni, sette parareligiose e massonerie locali
protette da padrini d’Oltremare, infidi arabi, perfidi ebrei e occidentali
infedeli, imperi rivali, superpotenze alleate ma non amiche.
Erdoğan non può accettare per la Turchia il formato residuale, ritagliato
dalla sconfitta dell’impero. Non si rassegna a che la sua terra sia ridotta a
nazione anatolica, più minime appendici. Abito troppo stretto, quasi soffocante.
Ne pretende uno nuovo, di taglia congrua alle proprie ambizioni, che non
possono spiegarsi solo quale rivincita sulle modeste origini – peraltro avvolte
da un filo di mistero, visto che un tempo si definiva georgiano (alcuni lo
vorrebbero armeno), per professarsi due anni fa di ceppo turco4. Erdoğan
immagina che nell’altro mondo dovrà rendere conto della sua geopolitica a
Maometto II il Conquistatore (Fatih), eversore nel 1453 della Costantinopoli
bizantina, e a Solimano I il Magnifico ovvero il Legislatore (Kanuni),
incarnazione dell’apogeo ottomano. Così si rivolge il 5 maggio 2013 a un
raduno di militanti del suo Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp): «Noi
non siamo come altri Stati, altre nazioni. Noi non siamo un popolo o uno Stato che
resterà quieto a vegliare in nome degli interessi, della congiuntura politica
o per mantenere la stabilità. Quando compariremo alla presenza del Sultano del
Mondo, Fatih il Conquistatore, vorremo apparirgli con la testa ben alta. Quando
compariremo alla presenza del Sultano del Mondo, Solimano il Magnifico, vorremo
apparire di fronte a tale presenza spirituale con la testa ben alta» 5.
Proiezioni di un megalomane? Visti popolarità e potere di Erdoğan,
considerati peso e peculiare collocazione strategica del suo paese, questo
revisionismo merita di essere indagato. A partire dal soggetto che dovrebbe
guidarlo: lo Stato turco, o meglio il sultanato del presidente. Per poi
definirne l’oggetto: quale impero? Ed esaminarne insieme il predicato: le
risorse mobilitate in rapporto alle resistenze da eliminare onde conseguire
l’obiettivo.
2. In Turchia il potere supremo risiede nello Stato. Strumento non solo di
gestione ma di trasformazione dell’ambiente interno (modernizzazione
socio-culturale, sviluppo economico, orientamento politico-ideologico) ed
esterno (revisionismo geopolitico). Da Atatürk a Erdoğan tale principio è
costante. Le strutture formali e informali della società civile – potentati
economici e finanziari, lobby d’ogni colore, gruppi etnici o religiosi,
movimenti politici e/o ambientalisti, media – non possono pareggiarne
l’influenza. Tanta concentrazione del potere deriva dalla convinzione che
lasciata a se stessa la composita famiglia che convive nell’ambito della
repubblica – ovvero le diverse comunità etno-culturali che la (de)compongono –
finisca per disintegrarsi sotto la pressione delle forze centrifughe indigene e
allogene. Lo Stato serve da autorevole/autoritario riduttore della
complessità. Il sistema politico modellato su schemi occidentali è mezzo, non
scopo: «La democrazia è un tram. Va avanti fino a quando vogliamo noi, poi
scendiamo», spiega Erdoğan 6. Sicché le istituzioni sono severamente
accentrate. Su tutto e tutti svetta la figura del capo supremo Recep Tayyip
Erdoğan, già primo ministro (2003-14) e ora presidente, di gran lunga il più
popolare leader della storia repubblicana dopo Atatürk (lui correggerebbe:
prima di Atatürk). Eppure, il 15 luglio scorso quest’uomo che gli adulatori
trattano da profeta e al quale gli intervistatori locali rivolgono domande
invocando «il vostro elevato permesso» ha rischiato di cadere nella polvere,
causa un pur maldestro, abborracciato tentativo di golpe. Quella data segna uno
spartiacque nella storia dello Stato turco. Ci fu un prima, ci sarà un dopo-15
luglio.
Alla vigilia del fallito putsch, la distribuzione del potere in Turchia era
grosso modo la seguente. Al vertice il presidente e capo dell’Akp, con una
solida maggioranza parlamentare, non però sufficiente a garantirgli l’agognato
cambio di regime in senso neogollista. Intorno a lui, un partito normalizzato,
soggiogato dal suo carisma. E opposizioni apparentemente condannate a restare
tali causa la modestia delle rispettive leadership e la prevalenza elettorale
degli islamisti nell’Anatolia profonda, nella capitale Ankara, perfino nella
stessa İstanbul (carta a colori 1). Quanto ai movimenti di protesta contro la
deriva autoritaria di Erdoğan, culminati nel maggio 2013 nella rivolta di Gezi
Parkı – sopravvalutata dagli osservatori occidentali e presto stroncata dal
pugno di ferro del governo (carta a colori 2) – erano ormai circoscritti e
demoralizzati, malgrado la testimonianza personale di alcuni intellettuali, tra
cui autori di fama globale come Orhan Pamuk o Elif Șafak. Quanto ai giornalisti
eterodossi, salvo eccezioni, la scelta era tra basso profilo, conversione alla
causa presidenziale o dimissioni – quando non la prigione.
La guerriglia curda, minaccia endemica all’unità nazionale alimentata da
avversari e alleati stabili (americani) o intermittenti (israeliani), non era
invece domata. Né i negoziati segreti fra Erdoğan e Abdullah Öcalan, il capo
del Pkk, suo prigioniero nell’isola di İmralı, avevano prodotto la
pacificazione agognata. La spina curda nel fianco turco, insieme agli attentati
terroristici dello Stato Islamico o di altri jihadisti, impediva ad Ankara il
pieno controllo del panorama domestico. Di conseguenza ne condizionava la
proiezione esterna.
Assai più incerta la partita nello Stato profondo (derin devlet), coacervo in costante competizione di poteri più o meno forti, talvolta
informali, financo invisibili – dai militari alle mafie, dall’intelligence alla
polizia e alla magistratura – autolegittimato dalla necessità di proteggere la
repubblica dalle derive democratiche, dagli eccessi liberaleggianti e dalle
cabale internazionali che ne minaccerebbero l’esistenza. Qui la posta in gioco
principale era il controllo delle Forze armate, sperimentato bastione
dell’eredità kemalista (ovvero dei privilegi della casta militare), che
Erdoğan si illudeva di aver perfezionato negli anni. L’interminabile negoziato
con l’Unione Europea, mirabile esercizio di reciproche ipocrisie, serviva alla
leadership islamista per legittimare il ridimensionamento della supervisione
militare sulla gestione politica, consuetudine incorporata nella costituzione
materiale della repubblica ed esaltata in tempo di guerra fredda contro
presunte infiltrazioni sovietico/comuniste. A generali e ammiragli il potere
civile esibiva la necessità di adeguarsi agli standard europei: i militari
stanno in caserma e ne escono solo per combattere l’eventuale aggressore, non
per rovesciare il proprio governo, come già accaduto quattro volte nella
Turchia moderna.
Nello Stato profondo si era installata una colossale piovra a due facce:
l’associazione islamista denominata Hizmet (Servizio), guidata da un
carismatico imam oggi quasi ottantenne, Fethullah Gülen, dal 1999 autoesiliato
in un remoto rifugio tra i Monti Pocono, in Pennsylvania. Organizzazione esteriormente
dedita all’educazione dei giovani e alla formazione delle élite, diffusa in
170 paesi. A partire dagli Stati Uniti, dove tuttora gestisce 140 scuole e gode
di potenti appoggi, compreso quello del clan Clinton e di alcuni apparati, Cia
in testa, per i quali fino al 15 luglio era un’utile leva d’influenza e di
ricatto nelle stanze del potere di Ankara. Di fatto impegnata a infiltrare
segretamente lo Stato turco per minare il dominio dei militari e degli altri
apparati in mano ai secolaristi, dalla magistratura alla polizia. Abbeverata a
un’ideologia esoterica – miscela di nazionalismo arabofobo turco e
interpretazione scientista dell’islam, anticomunismo e antisemitismo –
distillata dall’insegnamento di un teologo sufi curdo, Said Nursî (1877-1960).
Con l’aggiunta di una vena antiamericana, repressa in omaggio al massimo paese
ospitante.
Eppure, Gülen era capace di attrarre intellettuali e giornalisti liberal,
che usavano i media da lui finanziati per criticare, spesso con buoni
argomenti, gli apparati dello Stato turco. I quali non vedevano o non volevano
vedere l’altra faccia del gulenismo. A tratteggiarla basti un sermone di fine
anni Novanta, nel quale Gülen incitava i suoi a installarsi in incognito nello
Stato profondo, fino a raggiungere la massa critica necessaria a
impossessarsene: «Dovete muovervi nelle vene del sistema senza che nessuno
rilevi la vostra esistenza, fino a che avrete raggiunto ogni centro di potere.
(…) Dovete aspettare fino a quel momento, quando avrete preso tutto il potere statale,
quando avrete portato dalla vostra parte tutta la potenza delle istituzioni
costituzionali turche. (…) Fino ad allora ogni passo compiuto sarebbe
prematuro, come rompere un uovo senza attendere i quaranta giorni pieni della
cova» 7.
Così Gülen ha speso il suo talento per formare la futura «generazione
aurea», quella che avrebbe dovuto guidare la Turchia finalmente liberata dai
lacci kemalisti e riportata all’imperiale età dell’oro di cinque secoli fa.
L’imam ha quindi costruito una struttura segreta ipergerarchica, disposta in
cerchi concentrici, con al vertice lui stesso, lo hocaefendi (rispettato maestro). Per i suoi adoratori, Gülen è il Mahdī, il
«ben guidato» che stando a certa escatologia islamica verrà alla fine dei
tempi per sconfiggere il falso Messia e riscattare i musulmani, anticipando il
secondo avvento del profeta Gesù. Stando ai militari turchi che lo hanno
sempre detestato è invece «il Frankenstein americano», pupazzo
dell’intelligence statunitense installato quale limitatore di potenza nel cuore
dell’esercito «alleato»8.
L’obiettivo finale di Gülen era l’espropriazione dello Stato profondo
kemalista, da sostituire con il proprio. Disegno compatibile con lo scenario
strategico di Erdoãan – che pure in Occidente era dai più considerato, fino
alla repressione di Gezi Parkı, un curioso (e blasfemo) «democristiano
islamico». Il capo dell’Akp non disponeva però di quadri sofisticati come
quelli addestrati nelle scuole guleniste, sicché per islamizzare le nervature
burocratiche dello Stato doveva attingere al capitale umano dell’imam
transfuga. Per lunghi anni i due progetti, il gulenista e l’erdoganiano, hanno
marciato paralleli. Fino al 2012 l’infiltrazione gulenista nello Stato profondo
tradizionalmente monopolizzato dai laici – termine che in Turchia non indica la
separazione fra Stato e religione, ma l’imperativo per cui la religione deve
essere sorvegliata dallo Stato – era in parte concordata con Erdoğan. In questa
luce si intendono meglio le inchieste della polizia e della magistratura
orientata dai gulenisti – risalenti all’inizio dello scorso decennio e poi
rivelatesi fondate su documenti falsi – su presunti golpe (Ergenekon e Balyoz)
architettati nelle alte sfere delle Forze armate. Mentre anche la buona
società europea plaudiva ai procuratori coraggiosi, l’allora primo ministro si
compiaceva dell’incarcerazione di centinaia fra ufficiali, intellettuali,
burocrati e giornalisti. Intanto i quadri gulenisti si facevano largo nel vuoto
aperto dalla (loro) magistratura per rimpiazzare le teste cadute. Lo Stato
profondo stava diventando gulenista. A scapito non solo dei kemalisti ma anche
dello stesso Akp.
Il duetto a distanza Gülen-Erdoğan è continuato fino a che il capo della
Turchia ha cominciato a sospettare che il predicatore dei Monti Pocono
intendesse fargli le scarpe. Due leader per lo stesso progetto sono troppi. La
svolta è cominciata nel febbraio 2012, quando un procuratore di obbedienza
gulenista ha minacciato di arrestare il capo dei servizi segreti turchi, Hakan
Fidan, al quale Erdoğan aveva affidato i negoziati con Öcalan. Chiaro segno
che a Washington non volevano che andassero a buon fine. A convincere
definitivamente Erdoğan che Gülen giocava per sé e contro di lui è stata nel
dicembre 2013 la pubblicazione da parte dei media gulenisti di documenti che
rivelavano i non commendevoli traffici della famiglia del capo. Per culminare
nel febbraio 2014 con la diffusione via YouTube di una conversazione telefonica
fra Erdoğan e suo figlio Bilal su come nascondere denari sporchi.
Il campo islamista era ormai percorso da una sorda guerra civile. Erdoãan
scatenava l’epurazione contro i referenti gulenisti nello Stato profondo.
Specie nella polizia, feudo dell’imam traditore. La resa totale dei conti era
prevista per l’agosto scorso, con la purga definitiva in ambito militare.
La sera del 15 luglio scatta il golpe che dovrebbe prevenire lo
smantellamento della rete gulenista e che invece ne accelera la fine.
Improvvisazione, carenza di una catena di comando e soprattutto di sostegno
popolare segnano in poche ore la catastrofe dei golpisti, simboleggiata
dall’umiliante arresto di soldati ribelli da parte di poliziotti fedeli al
governo. Di più: questo «dono di Dio» (parola di Erdoğan) legittima il
controgolpe del presidente, che profitta dell’immediato clima di unità
nazionale per eradicare non solo lo Stato profondo affiliato a Gülen – cui
viene attribuita la totale responsabilità del fallito pronunciamento – ma
centomila fra avversari veri o solo sospetti. Certo non tutti affiliati alla
Fetö (Fethullahçı Terör Örgütü), acronimo di conio erdoganiano volto a
stigmatizzare la colpa della cricca gulenista, marchiata d’infamia terrorista.
Nelle settimane seguenti sono licenziati e/o arrestati ufficiali, poliziotti,
giornalisti, insegnanti, intellettuali, giudici, procuratori. Le Forze armate,
umiliate dalla polizia rivelatasi fedele alla repubblica, perdono rango,
prestigio, morale. E quindi, almeno a breve, soffrono in efficienza, visto
che all’appello mancano metà dei generali e degli ammiragli, l’Aeronautica
conta più jet che piloti, l’infida gendarmeria è sottratta alla Difesa e
incardinata all’Interno, mentre la polizia riceve in premio armi pesanti. Non
contento, Erdoğan vorrebbe dagli Stati Uniti via estradizione la testa di
Gülen. Non l’avrà, anche perché a suo carico mancano le prove.
Al golpe sanguinoso – 241 morti e 2.194 feriti, recita il bollettino
governativo – segue dunque un micidiale controgolpe «a secco». In due
movimenti, lo Stato profondo originariamente kemalista passa dall’incipiente
egemonia gulenista al dominio erdoganiano, che sarà forse sancito dalla
transizione al presidenzialismo per via referendaria. Almeno per ora, la
Turchia è retta con piglio semidittatoriale da un leader mai così popolare.
Ma lo Stato, deputato a scongiurare l’implosione della nazione, saprà
rispondere ai comandi del presidente sultano? O si svelerà troppo infragilito,
frammentato? E soprattutto, resa privata la res publica, a quale impresa geopolitica intende ora volgerla Erdoğan?
3. La mappa mentale che muove la geopolitica di Erdoğan è il Patto
nazionale (Misak-ı Millî) (carta 1). Varato il 2 febbraio 1920 dall’ultimo
parlamento ottomano, elevato poi da Atatürk a paradigma territoriale
dell’erigenda Turchia indipendente, quel progetto restò tale in seguito alla
reazione delle potenze vincitrici – Gran Bretagna, Francia, Italia – che
codificarono lo smembramento dell’impero ottomano nel devastante Trattato di
Sèvres (20 agosto 1920). Pace cartaginese all’origine delle teorie, tuttora
diffuse in Turchia, sul complotto internazionale che minaccerebbe in permanenza
la patria («sindrome di Sèvres»). Tragedia solo in parte edulcorata, dopo la
guerra di indipendenza, dal Trattato di Losanna (24 luglio 1923), deputato a
ratificare le frontiere della Repubblica Turca.
Il 29 settembre scorso Erdoğan si è scagliato contro il compromesso di
Losanna, citando in particolare la cessione di isole turche alla Grecia. Non
contento, ha attaccato «chi ci ha ingannato presentando quel trattato come una
vittoria»9. Leggi: Atatürk. In altri tempi, Erdoğan avrebbe pagato con la
galera l’offesa al padre della nazione. Oggi il presidente sultano può
serenamente rigettare la costituzione geopolitica dello Stato turco.
Il rifiuto di Losanna non sorprende considerando la retorica spaziale
erdoganiana. In essa si fondono tre vettori, su altrettante scale. La
panislamica o califfale, per cui la Turchia è il centro dell’ecumene
musulmana; la panturca o etnica, che spinge l’irradiamento nazionale fin verso
le originarie steppe mongoliche e nel Turkestan orientale-Xinjiang (carta 2);
la neo-ottomana, a recuperare non solo mentalmente terre e mari lungo l’asse
balcanico, a nord-ovest, e quello arabico, verso sud-est. Mentre le prime due
pertengono alla dimensione onirica del pensiero erdoganiano, la terza vorrebbe
essere concreta. A illustrarla vigeva un tempo la formula «zero problemi con
tutti i vicini», distillata dall’ex stratega principe del capo, Ahmet
Davutoğlu. Letta in controluce, quella sfortunata frase – oggi la Turchia ha
molti problemi con tutti i vicini – suonava «nessun problema con noi stessi». I
«vicini» erano infatti gli occupanti abusivi dello spazio imperiale sottratto a
Losanna. Quella formula apparentemente banale era la descrizione esoterica, ma
comprensibile agli iniziati, della restaurazione imperiale. Davutoğlu dixit:
«Non è sbagliato affermare che stiamo tentando di stabilire una Pax
Ottomana»10. Poco tempo dopo, il disastroso tentativo di Erdoğan di intestarsi
le «primavere arabe» giocando la carta degli affini Fratelli musulmani e il
conseguente avventurismo in Siria, dove Ankara aveva puntato sul rapido
rovesciamento di Baššār al-Asad tramite ribelli poco affidabili, distrussero
tesi e carriera politica di Davutoğlu, sacrificato sull’altare del suo mentore.
Negli ultimi mesi, sullo slancio del golpe fallito e nella consapevolezza che
il suo prestigio interno molto deve al fascino delle sue proiezioni
geopolitiche, Erdoğan sta provando a recuperare il terreno perduto. Perché
l’orizzonte neo-ottomano resta ben fermo nella visione sua e di gran parte dei
suoi connazionali, non solo elettori dell’Akp.
Riprendiamo in mano il Patto nazionale. Notiamo che questa Grande Turchia –
buona per Atatürk, piccola per Erdoğan – oltre ad annettersi molte isole
dell’Egeo attualmente greche, spicchi balcanici e avamposti caucasici,
ricomprende a sud-est il Kurdistan iracheno e quello siriano. Osserviamo che
nella mappa una linea ideale congiunge tre città care all’oleografia
neo-ottomana: Aleppo, Mosul e Kirkūk. Qui oggi una confusa mischia coinvolge
potenze regionali ed esterne, direttamente o attraverso i loro agenti locali
(carte a colori 3 e 4). A unirle la retorica della «lotta al terrorismo» –
ognuno bolla così il suo nemico, in specie lo Stato Islamico, mostro
provvidenziale utile a giustificare ogni intervento – a dividerle tutto il
resto. Nella certezza che se e quando l’improbabile «califfato» sarà battuto,
ci si azzannerà per la spartizione delle spoglie siro-irachene (carta a colori
5). La rissa per il bottino è già in corso attorno e dentro le tre
città-simbolo. Erdoğan reclama il suo diritto a parteciparvi. Da padrone di
casa.
In questa chiave si intendono l’Operazione Scudo dell’Eufrate, ovvero la
penetrazione in Siria il 24 agosto, e lo spiegamento di un contingente turco
a Ba‘šīqa, presso Mosul, pegno dei diritti storici di Ankara
sull’omonimo vilayet, non
spontaneamente ceduto nel 1926 all’Iraq sotto mandato britannico. Due sortite
strategiche coordinate. Lo Scudo dell’Eufrate, con relativa occupazione della
cittadina di Ğarābulus, serve non tanto a colpire lo Stato Islamico quanto
a impedire che le locali milizie curde (Ypg), appoggiate dagli Stati Uniti,
varchino il fiume verso ovest per formare un loro staterello nel Nord della
Siria (Rojava). Salvo poi connettersi ad ovest al Pkk operante nel Sud-Est
dell’Anatolia turca, e ad est – in caso di improbabile sintonia pancurda – con
il Kurdistan iracheno, centrato su Arbīl (carta a colori 6). L’obiettivo
tattico delle Forze armate turche è stabilire una zona cuscinetto di circa 5
mila chilometri quadrati nel Nord della Siria, in attesa di determinare il
futuro di ciò che resterà di Aleppo.
L’altro braccio dell’espansione turca è in Iraq. Segue la medesima logica:
spiegamento avanzato di un contingente, da rafforzare e impiegare nella
battaglia strategica, che qui verte su Mosul. Ancora una volta, lo Stato
Islamico, che conquistò la grande città sul Tigri nell’estate 2014 quasi
senza sparare un colpo, è lo specchietto per le allodole. Nell’assai
eterogenea coalizione – curiosa «squadra» di nemici giurati – che a metà
ottobre ha avviato l’avanzata su Mosul si contano milizie sciite mascherate da
esercito iracheno (o non mascherate e di obbedienza iraniana), milizie locali
arabo-sunnite, turcomanni sciiti in fiera disputa con i confratelli
sunniti, peshmerga curdi, «consiglieri», addestratori, forze speciali e aerei
americani, ma anche francesi e inglesi sulle orme di nonni e bisnonni, oltre ad
immancabili mercenari. C’è perfino, a pochi chilometri in linea d’aria
dall’epicentro dello scontro, un contingente italiano (fino a cinquecento
uomini) a protezione della diga di Mosul, con tanto di droni da ricognizione.
Come non capire la frustrazione di Erdoğan, inizialmente lasciato fuori della
porta? Sicché alla vigilia dell’attacco il presidente si sfogava contro il
premier iracheno Ḥaydar al-‘Ibādī che pretendeva lo sgombero della base di
Ba‘šīqa: «Non sei al mio livello»11. E tuonava: «È impossibile per noi stare
fuori da Mosul perché lì c’è la nostra storia»12. Aggiungeva per chiarezza:
«I gentili signori sono pregati di leggere il Misak-ı Millî per capire che
cosa quel luogo significhi per noi»13. Conclusione: «Dicono che la Turchia non
debba entrare a Mosul. Suvvia! Come sarebbe che io non entro? Ho un confine di
350 chilometri con l’Iraq e sono sotto minaccia da quel confine»14. Detto fatto:
appena scattata l’offensiva su Mosul i turchi vi si sono aggregati con
bombardamenti, incursioni di forze speciali e di milizie reclutate sul posto.
Le operazioni turche in Siria e in Iraq derivano dalla coscienza che quei
due Stati non esistono né esisteranno più. E che è scattata la corsa ad
accaparrarsene i bocconi più profumati, specie nelle aree di salienza
strategica, quale la zona di Aleppo, o energetica, come quelle di Mosul e
di Kirkūk. La frammentazione geopolitica degli Stati eretti da Francia e
Gran Bretagna sulle rovine della Sublime Porta ne riporta in superficie la
matrice ottomana. Sicché i vilayet di
Aleppo, Mosul e Kirkūk sono visti da Ankara come la Crimea da Mosca.
«Giardini di casa», secondo la delicata definizione del principale consigliere
di Erdoğan, İlnur Çevik . Poiché anche curdi, turcomanni, arabi – più o
meno rigorosamente divisi fra sciiti e sunniti – e altri gruppi etnici e
tribali non intendono abdicare ai loro orti e alle loro case, la battaglia di
Mosul, già allargata a Kirkūk e ad altre località irachene dalle
diversioni dello Stato Islamico, segna l’avvio di una nuova fase delle guerre
mesopotamiche. Destinata a durare, perché nessuna potenza è in grado di
tenere insieme o soggiogare tutte le forze e le velleità in campo.
Per Ankara, la soluzione provvisoria è la cantonizzazione dell’Iraq e
della Siria settentrionale, secondo malcerte frontiere etno-religiose e
tribali, in territori preda di gruppi criminali che vivono delle economie di
guerra. Il recupero di parte almeno dei tre vilayet ottomani potrebbe avvenire seguendo il modello Alessandretta/Hatay.
Dopo Losanna, il sangiaccato di Alessandretta, nella provincia di Aleppo,
rimase parte del mandato francese sulla Siria, malgrado Atatürk lo
rivendicasse in quanto «terra turca da quaranta secoli», giacché per lui gli
ittiti erano prototurchi16. Sotto l’egida della Società delle Nazioni, nel
novembre 1937 la Turchia si accordò con Francia, Gran Bretagna, Olanda e
Belgio perché il sangiaccato di Hatay fosse «distinto ma non separato» dalla
Siria. Salvo annetterselo il 29 giugno 1939 dopo un non limpidissimo
referendum, con conseguente esodo di arabi e armeni dal proprio territorio
ancestrale. Cantonizzazione più plebiscito: ricetta invidiabile. Soprattutto,
replicabile in altri appezzamenti del «giardino di casa».
Sotto la polvere cova lo scontro con l’Iran, che si erige a protettore del
governo iracheno, di forte impronta sciita. Resuscitano i fantasmi dell’antica
rivalità fra gli imperi persiano e turco. Ankara è convinta che gli iraniani
vogliano stabilizzare un corridoio strategico sciita
Herat-Teheran-Baghdad-Damasco-Beirut. La Repubblica Islamica teme che
l’intervento turco possa rimettere in causa la sua egemonia su Baghdad e
resuscitare la causa sunnita nella regione, d’intesa con l’Arabia Saudita e i
suoi petrosatelliti del Golfo, oltre che con il benevolente appoggio tattico di
Israele. Se e quando la sconfitta dello Stato Islamico sarà totale, cadranno
le ultime foglie di fico che mascherano le rivalità regionali di fondo.
L’alternativa a quel punto sarà fra guerra calda coinvolgente turchi, arabi e
persiani, vestita da scontro confessionale sunniti/sciiti, e uno storico
compromesso che stabilisca una lunga tregua in un conflitto apparentemente incomponibile.
4. L’avventurismo geopolitico di Erdoğan sarebbe inconcepibile in un mondo
retto dalle grandi potenze. Ma il vuoto lasciato tra Levante e Medio Oriente
dal collasso dell’Unione Sovietica, prima, dalla sfortunata guerra americana al
terrorismo con disastrosa invasione dell’Iraq, poi, infine dalla parziale
ritirata di Obama dalla regione, nella speranza di gestirla da remoto
attraverso la limitazione reciproca tra gli interessi delle potenze
interessate, ha riaperto le partite ibernate dalla guerra fredda.
L’equilibrio della potenza non è mai stato specialità americana. È
calligrafia strategica europea, concepita per la competizione fra gli Stati
nazionali del Vecchio Continente e perfezionata ai tempi del Congresso di
Vienna. Applicarne due secoli dopo una versione improvvisata nell’incandescente
fornace mediorientale, in piena entropia geopolitica, è esercizio superiore
alle abilità acrobatiche di Washington. Non solo perché sul terreno gli
attori sono troppi, ingestibili e spesso opachi. Ma anche in conseguenza della
competizione interna agli apparati americani cui è affidata la gestione del
balance of power. Più che coordinato equilibrismo, gli attori domestici della
geopolitica americana producono un poco gratificante spettacolo di giocoleria
circense affidata ad interpreti che seguono schemi diversi, spesso collidenti –
Pentagono contro Dipartimento di Stato, Cia contro altre agenzie di
intelligence, lobby etniche o politico-economiche in perenne baruffa – incapaci
di governare le molte palle lanciate in aria. Caos accentuato dalla sede
vacante (il dopo-Obama dura da almeno un anno) e dalla feroce competizione per
la presidenza.
Di conseguenza i rapporti tra Ankara e Washington sono in vertiginosa
involuzione, anche per effetto della percepita imprevedibilità del leader
turco. Il temperamento mercuriale di Erdoğan è palese, così come la
centralità del suo ruolo nella definizione della geopolitica turca. Tuttavia,
svolte e controsvolte del sultano presidente sono meno umorali di quel che
paiono. C’è del metodo in quelle follie. Erdoãan non è pazzo. È molto
pragmatico sognatore. Quotidianamente impegnato a coniugare l’alto profilo di
statista con i meno elevati affari che pertengono alla privata dimensione di
businessman attento al benessere suo e dei suoi cari.
Le relazioni con gli Stati Uniti e con le altre maggiori potenze illustrano
l’assai flessibile radicalismo del capo, consapevole che passata la notte del
15 luglio nessuno appare in grado di rovesciarlo. Davanti a sé Erdoãan vede
schiudersi un invitante orizzonte di spazio e di tempo che lo stimola a
coltivare i progetti più azzardati. Le sue idee devono però passare al vaglio
non solo dei rivali regionali di sempre, ma anche di Stati Uniti, Russia e
soggetti della residua Unione Europea.
Erdoğan non vuole rompere con gli americani. Intende però sfruttarne le
incertezze. Il presidente sultano condivide con la quota prevalente della sua
opinione pubblica la convinzione che il fallito golpe del 15 luglio sia da
ascrivere alla Cia, che si sarebbe servita della sua testa di turco, Fethullah
Gülen. Alcuni, come l’ex capo di Stato maggiore delle Forze armate turche,
İlker Başbuğ, sono certi che il tentato colpo di Stato sia stato programmato
dall’intelligence americana perché non riuscisse, in modo da indebolire
prestigio ed efficienza dei militari ed eroderne le manie imperiali. L’opinione
pubblica, straordinariamente sensibile alle teorie del complotto – comunque gratificanti,
perché convincono i turchi di essere importanti, altrimenti la superpotenza
non macchinerebbe contro di loro – ne sente confortato il suo antiamericanismo.
Ma di qui allo strappo con gli Stati Uniti e con la Nato, molto ne corre (carta
3). Semmai, si tratta di profittare della confusione a Washington per porre la
prossima amministrazione di fronte a due irreversibili fatti compiuti: zone di
controllo turche in Siria e in Iraq, teste di ponte della futura sfera
d’influenza neo-ottomana.
Anche per questo Erdoğan ha cercato e trovato una sponda in Russia. Nel
giro di pochi mesi, i rapporti fra Ankara e Mosca sono parsi trascorrere dal
nadir (24 novembre 2015, abbattimento di un aereo russo scivolato dalla Siria
nello spazio aereo turco) allo zenit (10 ottobre 2016, retrouvailles celebrate a İstanbul da Putin ed Erdoğan con recita da vecchi
amiconi e firma di accordi a tutto campo, dall’energia al commercio, dal
turismo alla cultura). Di strategico rilievo il progetto di un gasdotto
destinato a portare gas russo alla Turchia attraverso il Mar Nero, salvo
sfociare via Balcani nel mercato europeo. Per Mosca, questo Turkish Stream è
destinato a completare l’aggiramento del buco nero ucraino, avviato con il Nord
Stream, di cui ha annunciato il raddoppio d’intesa con la Germania. Per Ankara,
rafforza il tentativo di affermarsi come hub gasiero al crocevia fra
Russia, Medio Oriente, Levante ed Europa (carta a colori 7). Per Washington,
segna un altro passo del gambero nella diuturna battaglia di interdizione contro
l’interdipendenza energetica russo-europea. Perché i governi vanno e vengono,
le alleanze sorgono e decadono, ma i tubi restano.
Più precario sembra il compromesso fra Erdoğan e Putin sulle partite
levantine e mediorientali, troppo fluide per consentire strategie di medio
periodo. Allo stato, il leader turco pare aver dato mano libera ai russi e al
regime di Damasco per Aleppo, disimpegnandosi dai suoi esosi clienti locali, a
cominciare dai qaidisti di al-Nuṣra (in parte riciclati come Fatḥ al-Šām), in
cambio della rinuncia del Cremlino ad alimentare gli irredentismi
curdo-siriani. Erdoğan si è spinto fino a proporre ai russi di partecipare
alla gara per la costruzione del suo primo sistema di difesa anti-missili
balistici.
Ogni intesa fra turchi e russi va presa con un grano di sale. La dimensione
georeligiosa pesa: difensori dell’islam e protettori del cristianesimo
ortodosso non si conciliano con facilità. Ma che nell’attuale guerra ibrida
con la Russia gli Stati Uniti possano contare sull’alleato turco è escluso. La
Turchia è autocentrata. L’assetto strategico è flessibile, ma sempre
orientato ai propri interessi. Ankara non è più confitta in un compito
predeterminato, affidatole da Oltreoceano. E i russi ne profittano.
Restiamo noi europei. La sera del 15 luglio molte cancellerie
veterocontinentali hanno tifato per i golpisti. Il controgolpe erdoganiano
sembra aver definitivamente cancellato il miraggio dell’integrazione della
Turchia nell’Unione Europea, inattingibile come la tartaruga di Achille. Ma ha
anche messo in questione la tenuta dell’accordo turco-tedesco, vestito da
europeo, che impegna Erdoğan a impedire l’esodo dei «suoi» ospiti siriani verso
le nostre sponde. In attesa che altri disperati siriani e iracheni, in fuga dai
massacri di Aleppo o di Mosul, bussino alla porta turca o direttamente alla
nostra, via Canale di Sicilia.
Nel 2023 il presidente sultano intende celebrare il centenario della
repubblica quasi ne fosse il funerale di prima classe, avendo sancito il
ritorno dell’impero sugli Stretti fatali, nel frattempo coronati da nuovissime,
ardite infrastrutture (carta a colori 8). Pronto per presentarsi a rapporto dai
suoi augusti predecessori ottomani – il più tardi possibile.
Tali sogni eccedono il formato del paese. E trascurano le lezioni della
storia: gli imperi possono decomporsi in Stati nazionali, ma questi non
ricompongono mai l’impero originario. Se non gestite con flessibilità, le
pulsioni neo-ottomane produrranno il disastro. E forse un giorno gli storici
stabiliranno che, per aver voluto restaurare il sultanato, Erdoğan avrà
distrutto lo Stato inventato da Atatürk.
Note
1. Citato in LORD KINROSS, Atatürk. The Rebirth of a Nation, London 1964, Weidenfeld and Nicholson, p. 47.
2. «Foreign Policy-Synopsis», Republic of Turkey, Ministry of Foreign Affairs – Turkish Embassy in Zagreb, zagreb.emb.mfa.gov.tr
3. Così SH. HAMID nella tavola rotonda della Brookings Institution, «Turkey after the Coup Attempt: Implications for Turkish Democracy, Foreign Policy, and the Future of the Syrian War», 20/7/2016, www.brookings.edu
4. I. KUTLU, The Life of Recep Tayyip Erdoãan, p. 2, Amazon, s.d. s.l.
5. S. SERRA ERDOÃAN, One Minute! Excerpts from Speeches Delivered by President Erdoãan, iBoo, Lon- don 2015, p. 76.
6. Cit. in CH. DE BELLAIGUE, «Welcome to Demokrasi: How Erdogan Got more Popular then ever», The Guardian, 30/8/2016.
7. Cfr. A. AIDINTAS ̧BAS ̧, «The Good, the Bad and the Gülenists», European Council on Foreign Rela- tions, 23/9/2016.
8. Cfr. M.A. REYNOLDS, «Damaging Democracy: The US, Fethullah Gülen, and Turkey’s Upheaval»,Eurasia Review, 27/9/2016.
9. «Erdoãan Criticizes the Treaty of Lausanne, which Established the Borders of Turkey», Ria-Novosti, 29/9/2016.
10. A. DAVUTOÃLU, intervista al giornale turco Sabah, 12/4/2009, goo.gl/BqXmXp
11. B. BORA, «Analysis: What is Turkey Trying to Achieve in Iraq?», Aljazeera, 14/10/2016.
12. «Erdogan: Turkey “Will Be At Table” for Mosul Talks», Habertürk, 17/10/2016.
13. Ibidem.
14. A. KHALIDI, «Erdogan Invokes Document that Claims Mosul as Turkish Soil», Kurdistan24, 17/10/2016.
15. İ. ÇEVIK, «Iraq and Syria Is Our Back Garden», Daily Sabah, 4/10/2016.
16. Cfr. «Storia di Hatay» (in turco), antakyarehberi.com
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